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La notte insonne rievocò il sapore dei tempi andati dell'Università, riportando alla mente il peso delle responsabilità che ora gravavano sulle mie spalle. Dai progetti accademici fatti nella tranquillità di casa ero passata, da un giorno all'altro, a essere una scienziata a tutti gli effetti, dedita completamente al suo intento.

Da quando avevo cominciato il progetto risiedevo stabilmente alla Base, trascorrendo le giornate tra le mille carte astronomiche e dormendo al suono dei sottili bip, alla luce fioca dei led. Ad accompagnare perennemente le mie giornate c'erano le illuminate e bianche pareti dei corridoi e l'attrezzatura da laboratorio stipata in ogni angolo della struttura.

Gli occhiali posti sul naso e il camice indosso attraversai gli stessi corridoi degli ultimi mesi con la malinconia di quella notte che li assaliva, coprendoli di cupo. I portoni della Sala Operativa ancora chiusi erano indice del fatto che la luce del sole ancora doveva cominciare a rischiarare i cieli della Base; un dato di fatto che, senza alcun dubbio, non necessitava del consulto del più potente telescopio mai costruito di cui, naturalmente, disponevo. Il riconoscimento biologico 4.0 mi permise l'accesso solo dopo aver mostrato la mano e il sistema operativo avviò l'accensione automatica dell'impianto che era sotto il mio esclusivo comando. Al mio passaggio, i primi ad attivarsi furono i lampadari a micro-led, tecnologia brevettata in passato, ma pur sempre efficace. Una lampadina continuava a lampeggiare senza sosta.

"Sistema di illuminazione attivato. Accensione dei Server. Ricalcolo dei dati. Posizionamento dei telescopi"

La tecnologia innovativa installata alla Base registrava in autonomia tutto ciò che avveniva all'interno dei laboratori: gesti, spostamenti, avvio di procedure, arrivo di comunicazioni. Il suono fastidioso di quella voce metallica si propagò nella vastità del Laboratorio Principale, amplificandosi nella mia testa che non trovava pace. E come se non fosse già abbastanza di peso, la macchina annunciò l'arrivo di una comunicazione.


Tra i quattro esploratori che erano stati chiamati a registrare un video ologramma di report, il primo ad arrivare al Server della Base fu quello del soldato Myer.

"Giorno I, Pianeta F1-O5 nella Galassia di Marte Secondo. Qui è Mathias Myer, soldato scelto dell'esercito e uno degli esploratori del Progetto I per la (H)ORUS. Ho appena stabilito l'accampamento provvisorio per eseguire le analisi approfondite da lei richieste"

La telecamera in alta definizione riusciva ad inquadrare le goccioline di sudore che scendevano lungo il volto di Myer andando a bagnare infine la sua folta barba. Sullo sfondo la tenda, con strutture in titanio e acciaio, simile ad una grande scatola, che posava le basi su un terreno di polvere rossa.

"La temperatura sarebbe insopportabile agli umani se non fosse per la tuta. Il termometro in dotazione si ferma ai 1500 gradi ma non li sostiene, il caldo è di gran lunga superiore. Ciò che emana il calore è il nucleo di F1-O5: non solo alza la temperatura del suolo, ma si propaga oltre questo, arrivando a scaldare l'aria nei confini di una simil-atmosfera che circonda il pianeta. Irradia costantemente energia, come fosse un altro Sole. Il pianeta si muove lungo un'orbita di forma triangolare, per cui rimane per 6 ore terrestri ai vertici, in una situazione di immobilità temporanea. Ora passiamo alle notizie davvero importanti."

La telecamera stava facendo una panoramica di F1-O5, mettendo in evidenza ogni granello di terra rossa e le nubi di calore che protendevano verso l'alto. I grossi crateri che segnavano il suolo sembravano pozze da cui evaporavano metalli. Incuteva terrore più del nostro deserto, suscitava dubbi sulla possibilità di un po' di vita.

"Per precauzione sono accampato in questa zona deserta e ben nascosta, lontano dagli insediamenti alieni. Come da richiesta però, qualche ora fa mi sono avvicinato quanto bastava per documentare qualcosa riguardo la "città", non saprei come altro definirla"

Sullo schermo scomparve il volto di Myer per lasciare posto a immagini e video della città. Con lo sguardo proiettato lungo una via sterrata si giungeva alle torri possenti che reggevano le porte della città e alle mura difensive fatte di mattoni rigati, rigorosamente di colore rosso. Mura possenti che non lasciavano intravedere l'interno di una città che, con i suoi abitanti, rimaneva ancora un codice cifrato.

"La chiamano Xanaria"

Questa fu l'unica cosa che riuscì ad aggiungere prima di interrompere il collegamento.

(H)ORUSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora