Prologo

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K A T Y


Non ricordo il primo giorno in cui ho messo piede in piscina, forse perché ero troppo piccola; tutto ciò che mi è rimasto è una nuvola di ricordi sparsi di un'infanzia felice.

Quando ci penso, la prima cosa che mi viene in mente sono le mani calde di mia mamma che sparpagliano i miei capelli sotto al getto tiepido del phon.
Ricordo il tepore dell'aria calda sulla pelle, l'umidità intorno a me a profumare l'ambiente di cloro e bagnoschiuma, il suono metallico dei gettoni delle docce e le voci di bambini e adulti, impresse nelle pareti piastrellate degli spogliatoi.

Se mi concentro, mi sembra di sentire ancora l'odore del borotalco che la nonna di Emily, migliore tuffatrice del mio corso, si ostinava a cospargerle per tutto il corpo dopo la doccia e le piccole nuvolette bianche che produceva ad ogni picchiettio della spugnetta morbida.
E, ovviamente, anche le lamentele di Emily.

Ho impresso nella memoria il contatto morbido tra il tessuto delicato dell'accappatoio e la mia pelle e i giochi di equilibrismo per rimanere in piedi su una gamba sola, mentre cercavo di mettere calzini e scarpe senza bagnarmi.
Ma ricordo anche che l'equilibrio non è mai stata la mia più grande capacità, né, se è per questo, dare retta a mia madre, da sempre ostinata nel mettermi cappelli, cappucci e sciarpe che, puntualmente, toglievo una volta fuori dallo spogliatoio.

Il primo giorno in cui ho messo piede nella piscina del Campus, però, quello lo ricordo molto bene.

La struttura imponente si stagliava al centro esatto del "settore sport" del Campus, adiacente ai campi di atletica.

All'interno, dieci corsie correvano l'una affianco all'altra per venticinque metri, per terminare in un muretto piastrellato, ciascuno di un colore diverso.
I blocchi di partenza in cemento si ergevano sopra al muretto all'inizio della corsia, di cui riportavano il numero.

L'ambiente era illuminato dalle ampie vetrate presenti ai lati dell'edificio, e la luce fluttuante si scontrava con la superficie dell'acqua, creando un magico gioco di contrasti.

Infine, una serie di trampolini sempre più alti era disposta lungo un soppalco composto da vari piani, a cui si accedeva tramite una scala a chiocciola in metallo.

Le tribune, brulicanti di istruttori e studenti, si stagliavano ai lati delle corsie, organizzate in gradinate di marmo in discesa. In basso lasciavano aperto un varco, davanti al quale erano localizzate le docce e le porte di accesso agli spogliatoi, speculari: da un lato donne, da quello opposto uomini.

Ripensai a quante volte avevo visto i miei genitori e i miei fratelli seduti sui gradini della vecchia piscina della mia città, a fare il tifo per me.
Erano anni che avevo smesso di nuotare a livello agonistico: gli allenamenti erano troppo impegnativi; i giorni passavano, lo studio diventava sempre più pesante ed io più debole e stanca.

Non ho mai sognato di avere una vita professionale che coinvolgesse il nuoto, quella per me è sempre stata una passione.

Nascere e crescere in una famiglia di subacquei mi aveva portato, in modo quasi innato, ad amare qualsiasi cosa avesse a che fare con l'acqua, ed ero sempre stata soddisfatta dello sport che facevo, anche quando crescendo vedevo le mie compagne prepararsi per i saggi di danza o ginnastica, mostrare i loro bellissimi tutù a tutte le amiche e sviluppare una grazia e un portamento che probabilmente io non avrei mai avuto.

Ma a me non importava, fintantoché riuscivo a battere Dave, il mio compagno di allenamenti, facendo ben due vasche in apnea.

Per un motivo o per un altro finiva sempre per alzare la testa prima di me e questo voleva dire solo una cosa: fino ai dieci anni la moneta di scambio erano le figurine, io vincevo e lui me ne regalava una.
Verso gli undici anni scoprii la passione per il gelato al pistacchio e a quel punto per Dave non ci fu più scampo... Da allora, non c'era allenamento che non finisse da Millos, gelataio a un isolato dalla piscina.

Mio padre fu molto deluso dalla mia scelta di lasciare lo sport: fin da quando ero bambina non si era mai perso neppure una gara ed era stato, da sempre, il mio primo sostenitore.

Ma per me la decisione era presa.
Così in una calda giornata di Giugno partecipai alla mia ultima gara, chiudendo un ciclo iniziato tredici anni prima, a soli cinque anni.

È strano come nella vita non esistano mai, alla fine, addii definitivi. Quasi come se esistessero situazioni, persone, avvenimenti o semplicemente abitudini della tua vita a cui rimarrai sempre legato con un filo invisibile, infinitamente estensibile, ma pronto a riportarti indietro in un secondo.

E il mio, di secondo, è stato scandito dalla scoperta più dolorosa che potessimo fare: la malattia di mio padre.

Stavo per cominciare il mio secondo anno di università: il primo era passato velocemente, scandito dal ritmo delle lezioni, dello studio e dai continui via vai verso casa, nei weekend, per accompagnare i miei genitori alle visite.
Avere una diagnosi precisa aveva richiesto mesi e mesi di consulti e pareri medici, spesso discordanti l'uno dall'altro, e subito dopo aver ottenuto la diagnosi, era partita la seconda maratona: cercare le terapie migliori.

Purtroppo la presa di consapevolezza dei costi per le cure sperimentali non tardò ad arrivare: l'assicurazione arrivava a coprirne solo il 70% e i soldi mancanti erano troppi per le nostre tasche.

Il pensiero più immediato fu quello di accantonare, almeno per il momento, il mio sogno di diventare un medico: i soldi del College sarebbero stati sufficienti a garantire quasi un anno di terapie.

Ero la sorella maggiore, nonché l'unica che potesse fare qualcosa di concreto dal punto di vista economico, ma quando ne parlai con mia madre trovai da parte sua una severa opposizione.

Seduta sul mio letto aveva puntato i suoi grandi occhi nocciola nei miei; erano segnati da piccole rughette laterali, che ne delineavano il contorno morbido.

Afferrò la mia mano e le sue parole cominciarono a vorticare nell'aria:
«Affronteremo tutto insieme, come sempre, e troveremo una soluzione. Ma è importante che tu viva la tua vita, tesoro: torna al College, realizza i tuoi sogni e goditi la tua quotidianità. Ridi, scopri cose nuove, persone nuove... Impara, studia, divertiti e innamorati come una normale ventenne Katy, ma sii felice. Non ripetere lo stesso errore dell'anno scorso amore, desideriamo solo questo. Fallo per noi, per lui»

La mano dolce di mia madre mi aveva avvolto il viso, dedicandogli un'umida, tenera carezza, mentre le sue parole aprivano una breccia nel mio petto, marchiandosi sul cuore.

Poche settimane dopo partii con l'amaro in bocca; un senso di impotenza mi trafiggeva lo stomaco.

Le giornate presero a scorrere lente, indistinte: andavo a lezione, tornavo a casa, cenavo con le coinquiline e studiavo.
Finché un giorno, improvvisamente, camminando per i corridoi del College, notai una locandina appesa alla bacheca:

"Gare di nuoto stagione 2023-2024: iscriviti, qualificati e partecipa alle selezioni per la squadra! Borse di studio assicurate a tutti gli atleti!"

Sorrisi, segnando sulle note del telefono l'indirizzo email riportato sul foglio.


Non notai quello sguardo profondo che, da lontano, si posava distrattamente su di me, dalle tribune della piscina.
Vidi solo un profilo perfetto, con un naso all'insù, perdersi nell'aria circostante, mentre immergevo il viso nell'acqua limpida.

Fu così che tutto ebbe inizio

Fu così che tutto ebbe inizio

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