4. Hopeless or hopeful?

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K A T Y

Ti porto solo dove vuoi arrivare

Deglutii.
Dove volevo arrivare, così? In tremendo affanno dopo una misera sessione di riscaldamento.

Le mie guance bruciarono sotto al peso delle mie stesse aspettative, mentre gli occhi si perdevano riflessi sullo specchio d'acqua.

Ti porto solo dove vuoi arrivare

Volevo arrivare alle qualifiche, vedere il mio nome tra l'elenco dei membri della squadra di nuoto del Griffith.

Volevo la borsa di studio.
Volevo il sorriso di mia madre.
Volevo che mia sorella e mio fratello non dovessero convivere con il peso dell'impotenza.
Volevo che mio padre stesse bene.

Volevo tante cose.

Volevo tutto, tutto ciò che non potevo stringere tra le mani, ma che potevo inseguire.
Tutto ciò che potevo raggiungere, con impegno e dedizione.

«Qualsiasi cosa tu sogni di fare, incominciala: rincorrila per raggiungerla. So che tu insegui ciò che brilla, e mai ciò che luccica, perciò, figlia mia, se hai un desiderio, credici fino in fondo: nutrilo con la speranza e con la dedizione. E un giorno sarà tuo.»

Insegui ciò che brilla, e mai ciò che luccica

Le parole di mia madre si plasmarono nella mia testa, mentre sollevavo gli occhialini sulla fronte; una schiera di gocce mi carezzò il viso, in una scia indisturbata. Mi parve quasi di percepire la dolcezza del suo tocco.

Ricordavo bene quella conversazione: quando mi ero ritrovata a scegliere il mio percorso di studi avevo attraversato un periodo di grande insicurezza: ero certa di cosa volessi fare, ma il freno più grande a qualsiasi progetto di vita elaborassi, era il costante timore di non essere all'altezza.

La paura del fallimento, la paura di deludere le persone che amavo. La paura di dovermi ritrovare a compiere un passo troppo lungo per le mie gambe, accorciate dai limiti.

Ne potevo contare innumerevoli, se mi ci soffermavo; li percepivo tutti, dal primo all'ultimo, avvolti attorno alla mia pelle come un involucro di filo spinato, pronti a frenare qualsiasi movimento volessi compiere.

S'infilavano nella pelle, affilati, e affondavano, mangiandosi la mia voce.
Non un grido, non un lamento: l'eco stridente della paura trascinava tutto via con sé, cedendo il posto solo al vuoto.

Non ero mai stata la prima della classe.
Non ero mai stata la prima nelle gare, quando nuotavo a livello agonistico.
Non ero mai stata l'amica preferita, la prima invitata ad una cena, o a una festa.
Non ero mai stata la prima scelta, il cavallo su cui puntare.

Ero carina, ma non bella.
Intelligente, ma non brillante.
Simpatica, ma non esilarante.
Studiosa, ma non colta.

Ero tutto, ma mai abbastanza.

Un perfetto arcobaleno di mediocrità.

E alla fine, con quelle spine marchiate nella mia pelle, avevo imparato a conviverci: avevo capito che erano così radicate in me, da non poter essere più tolte. Perciò le avevo semplicemente accettate e avevo capito che l'unica sfida in cui potevo competere realmente, in fondo, era quella con me stessa.

L'avversario peggiore che potessi incontrare.

D'altronde, come potevano gli altri scommettere su di me, se io ero la prima a non farlo? Se ogni volta che mi ponevo un obiettivo, una voce s'insinuava nella mia testa, gridandomi che quella sfida, per l'ennesima volta, non fosse alla mia portata.

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