3 ANNO- 4. LEI

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La vita è un susseguirsi incessante di cerchi che aprono se stessi attorno a noi.
Ogni evento è una pietra gettata nell'acqua immobile di uno stagno che impattandosi ad essa genera piccole onde che si allargano in cerchi concentrici e noi siamo l'acqua di quello stagno. Ci accingiamo troppo spesso a lavorare duramente contro la natura di noi stessi per trasformare quelle forme in quadrati, ma non potremo mai riuscire a farlo. L'unico modo per arricchirsi di quei centri è seguirli, navigarli, osservarli, accettarli e decidere che farne. Accoglierli o chiuderli.
L'anno nel quale ebbe inizio questa storia ero reduce di grandi battaglie. Una vecchia, nuova Don Chisciotte. Combattevo con ogni mezzo disponibile. Avevo superato una malattia che aveva visto cambiare ogni certezza della mia vita. Affrontato una morte importante all'interno della mia famiglia. Avevo proiettato me stessa sul palco di un teatro, nel ruolo da protagonista di una delle più importanti opere di Shakespeare, per uccidere la timidezza che sino a quel momento era padrona di tutto ciò che facevo e non facevo della mia vita. Ed avevo vinto. La platea non era riuscita ad ammutolire le mie parole. Il tendone si era chiuso per riaprirsi su un mondo diverso. Un periodo importante nel quale avevo impiegato il tempo necessario per conoscere chi fossi. Ero fiera di aver raggiunto tanti obiettivi.
Eppure si sa. Possiamo studiare il passato, affrontare il presente, ma del futuro non potremo mai saperne niente.
"Non ci è permesso scegliere la cornice del nostro destino. Ma ciò che ci mettiamo dentro è nostro"
Il terzo anno, il triennio aveva inizio e con lui una nuova rotta verso il percorso scelto di studi. Sarebbe stato tutto diverso. Le materie, molti insegnanti, i rientri. Quando mi soffermavo a pensarci sembrava solo il primo mese del tragico passaggio medie/superiori. Ricordavo perfettamente la super cotta per quel ragazzo bello e maledetto, quello per cui ascoltavo a ripetizione ogni giorno per circa una ventina di volte "bello impossibile" di Gianna Nannini, quel ragazzo all'apparenza indistruttibile che si presentò sin da subito in ritardo, con strafottenza, vestito in pelle nera e borchie, i capelli corvini e lunghi raccolti in una coda. Mauro. Si chiamava così. Un principe dolce e delicato in realtà. Vegano. Era doloroso sentire il rumore dei sogni d'amore non corrisposti e la rabbia era tanto forte da accartocciarsi come "frecce di carta quando incontrano il muro". Ogni età ha ostacoli e sfide da affrontare. Me la cavai con qualche livido ed una buona dose di fortuna.
Ed il secondo amore, quello per il quale mia sorella mi ha odiata, per un ragazzo che avrei inizialmente volentieri scaraventato in mezzo alla strada senza alcun ripensamento, non avevo mai provato tanto fastidio come quello che sentivo crescere quando Jary mi rivolgeva parola. Era come dover sopportare un gesso che stride scorrendo sulla lavagna. Qualcosa fuori dal mio controllo. Fino a quando compresi che avevo solo bisogno di averlo con me. Passammo ogni

giorno assieme per un anno intero. Eravamo io, lui e Francesco, un amico speciale che capì da subito quale fosse la situazione. Io e Jary non siamo mai stati soltanto Amici, anche se nessuno dei due all'epoca ebbe il coraggio di dirlo. Il nostro addio fu in uno sguardo alla fermata dell'autobus. Lui mi disse solo: "non mi guardare". Era bocciato nonostante l'impegno enorme per aiutarlo. La parte migliore di noi sbocciò anni dopo quando ritrovandoci grazie ad MSN mi disse: tu mi piacevi tanto Iryanne. Eccolo quel coraggio che era mancato nel momento più giusto.
Mormora, la gente mormora. Ed in classe facevamo la solita cosa. C'era molto di cui parlare; le nuove materie, ciò che avremmo passato l'anno venturo, la paura di non essere abbastanza, i nuovi arrivi, le partenze.
La mattina del rientro a scuola, dopo i saluti e con l'euforia di vivere quella nuova esperienza, incuriositi, andammo ad interrogare le bidelle sui nuovi professori, volevamo sapere cosa ne pensassero, buoni? Competenti? i classici insegnanti acidi che non vedono l'ora di darti un bel due?
Ci tranquillizzarono, o almeno, lo fecero in parte perché tutte le cose belle di cui ci misero al corrente furono immediatamente cancellate dai racconti di uno dei professori che avremmo incontrato nel nostro cammino. Furono tanto convincenti da rendere certezza nella mente di tutti ciò che professavano. Come scalfito su pietra.
Aspettammo qualche giorno prima di vederlo varcare la porta dell'aula. Un Dio. Era un uomo alto, i capelli castani ed un carnato scuro, bellissimo nel suo incedere; indossava dei jeans blu Navy, scarpe Yachting ed un maglione dolcevita bianco ricamato a coste.
Anche gli accessori raccontavano una storia precisa. Un paio di occhiali da sole, un orologio da sub, un bracciale in acciaio, al collo una rosa dei venti stilizzata ed una cartella da lavoro in pelle nera, simile ad una Pier One, che poco aveva a che fare con l'armonia del suo vestire. Non la portava a tracolla, ne teneva il manico. La sua aurea proiettava il colore dell'acqua salata di oceani lontani. Quella borsa invece incarnava la sua attuale professione. Il tecnico. Il professore. Pensai fissandolo che quel lavoro calzasse a forza come una scarpa stretta da portare a lungo. Probabilmente una scelta difficile lo aveva portato ad abbandonare il suo habitat naturale. Forse ne era pentito. Forse aveva perso la rotta Maestra, perché il suo sguardo era freddo come un iceberg.
La sequenza della sua entrata in classe ancora è stampata nella mia memoria. Si avvicinò alla cattedra silenzioso, senza alzare lo sguardo su di noi, tenebroso, sembrava provenire da chissà quale oscuro teatro abbandonato, amico intimo del fantasma dell'opera di Parigi. A lui non interessava capire chi fossimo. Doveva soltanto percorrere e svolgere per tappe la tabella di marcia.
Seduta al primo banco, così vicina a lui e senza scudi, mi sentivo indifesa ed al contempo incuriosita, il suo odore mi inebriò, profumava di libertà.
Si tolse gli occhiali e catalogò ognuno degli studenti, come si fa per mettere in ordine in base al criterio di genere i libri su di uno scaffale di biblioteca.
-Da oggi in poi, io sarò il vostro incubo, non avrò pietà. Se mi date fastidio, con me avete chiuso. Se non volete seguire la lezione, uscite. Io sono qui per insegnare, non per perdere

tempo con degli incapaci. Io vi do il mio rispetto, voi lo date a me. Non transigo-
Furono le sue prime parole. Le pronunciò tenendo inchiodato il suo sguardo al mio, sembrava una sfida. Pareva quasi che avesse notato la mia attenzione, sembrava potesse aver udito i pensieri che correvano veloci sulle colline del mio mondo interiore.
Iniziò la lezione ma onestamente non riuscii a seguire neppure un minuto della spiegazione di quel giorno. Ormai mi ero soffermata a lui, al tipo di persona che può entrare in una classe e dire delle cose simili, avevo la necessità di avviare un processo di analisi che potesse portarmi ad un risultato teorico che avesse una dimostrazione. Qualcosa sembrava fuggirmi via. Eppure ero un'abile calcolatrice.
I cinquanta minuti a nostra disposizione finirono con l'acuto e stridente suono della campanella. Era il momento di correre in palestra o avremmo fatto tardi.
Raggiunto il piano inferiore ci accorgemmo di aver dimenticato il registro in aula, sotto richiesta del prof di educazione fisica, corsi indietro a prenderlo trovando Lui ancora li. In classe. E questo è il nostro Incipit. Sipario.
-che vuoi?-
quasi faceva paura, intimoriva il suo tono di voce e risposi:
-abbiamo dimenticato il registro, servirebbe in palestra per
l'appello-
emise un suono cupo e gutturale, poi allungandomi il registro:
-tieni-
-grazie-
mi voltai verso la porta per uscirne
-aspetta un attimo-
Mi afferrò il braccio
-mi dica professore-
-ti ho notata prima, durante la lezione non mi perdevi di vista, come ti sono sembrato?-
non potevo credere che stesse chiedendomi come fosse andato il nostro incontro, quale senso aveva quella domanda?
-io amo i professori che ti guardano dritto negli occhi senza
paura mentre si presentano o spiegano, per cui per quanto mi
riguarda direi che l'inizio è stato ottimo-
sorrisi e tornai al mio dovere di studentessa.
La mattina dopo ancora ero sconcertata. Sembrava quasi che volesse un consiglio. Profondamente insicuro di se. Iniziai così a guardarlo con occhi diversi. Puntando su di lui l'intera cromatura dei colori. Mettendo da parte, chiuso in una scatola anonima, tutto di lui se non ciò che sentivo. In un qualche angolo nascosto del cuore ero certa di avere ragione. Perché il cuore sente oltre ciò che vedi.

IRYANNEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora