Come faccia un piccolo oggetto metallico a procurare così tanto sollievo, rimarrà per sempre un mistero, per me. Come le carezze della lama che scorre sulle braccia, lasciando segni rossi e sanguinanti possano alleviare il dolore che ho dentro, e che mi divora col passare dei giorni. Un mostro che si nutre del vuoto al mio interno, e che mi fa sentire sempre più vuota, finché io non diventerò così vuota e leggera da tutto da poter volare con papà. Quando la lama finisce il suo lavoro, la chiudo a chiave nel cassetto senza neanche preoccuparmi di lavarla. Vado in bagno con lentezza e, prendendo delle garze dal mobiletto in alto, comincio a fasciarmi il braccio per non far uscire troppo sangue. Sarei un peso anche in ospedale, per mia madre. Non capisco cosa ci faccia ancora qui io, perché la mamma non mi abbia ancora cacciata via di casa. In questo periodo non capisco molte cose, come il perché del mio essere sempre presa di mira a scuola. Avrò una calamità attira-problemi, o semplicemente mi merito tutto quello che mi sta accadendo. Mi accorgo di aver finito con il braccio e ripongo il rotolo di garza sul ripiano. Mi guardo allo specchio. La mia pelle ancor più pallida per via della perdita di sangue fa risaltare maggiormente le lentigini, le labbra piene, screpolate ed incolore formano una linea dritta ed inespressiva, gli occhi blu opachi come se ci fosse una patina sopra ed i capelli di quell'arancione che tende sul rame sono spettinati e ondulati, dandomi l'aria di una che è appena uscita da un manicomio. Non sono poi così speciale. Perché William mi da tutte queste "attenzioni"? Fossi bella magari potrei anche biasimarlo. Magari fossi una biondona con una quinta di seno ed un sedere sproporzionato, labbra enormi ed occhi celesti stile Barbie potrei capire, ma io non sono questo genere di ragazza, se ne sono accorti tutti. Infatti il resto della scuola mi lascia in pace, anzi mi ignora proprio, e ne sono grata. Dopo minuti ad osservarmi allo specchio, guardo l'orologio e mi accorgo che sono le 17:10, quindi io dovrei prepararmi perché devo andare in campagna, nel vecchio casolare dei miei zii, alle 17:30. Ormai non ci va nessuno, ma mi ricordo che quando ero piccola papà era solito portarmici. Da quando è morto, è sempre stata una mia abitudine, e nonostante sia sempre lo stesso posto, ogni volta scopro nuove cose. È piacevole sopratutto a quell'ora, perché tutti sono a casa e raramente vedo passare gente. Le pochissime persone che passano da lì sono ciclisti e per questo mi porto molte bottiglie d'acqua nel caso dovessero chiedermene. Mi incammino verso l'armadio e apro le ante, rivelandomi i pochi vestiti che ho. Prendo una T-shirt verde ed una salopette di jeans un po usurata, indosso il tutto e mi allaccio ai piedi delle scarpe da ginnastica. Prendo una borsa a tracolla e ci infilo 6 o 7 bottigliette d'acqua e 1 panino al pomodoro, un libro, un coltellino ed un mini-kit di pronto soccorso che ho sempre pronto in uno degli scaffali della mia stanza. Prendo il telefono e le cuffiette che infilo nella tasca centrale della salopette e sono pronta. Scendendo le scale noto che la mamma si è addormentata sul divano con ancora i vestiti del lavoro. Decido di toglierle almeno le scarpe, e dopo questo esco di casa portando con me una copia delle chiavi. Uscendo, trovo la mia bicletta celeste e bianca appoggiata allo steccato che circonda la mia casa, legata ovviamente da un catenaccio. Tiro fuori la chiave, lo sblocco e salto in sella alla bici per poi partire per le stradine secondarie di Danver fino ad arrivare ad un'immensa campagna, con ulivi ed arbusti secchi, eriche, spezie come il rosmarino selvatico, fiori come i girasoli, papaveri, margherite e perfino rose. Il mio paradiso. Scorgo in lontanaza il vecchio edificio e rallento fino a fermarmi del tutto. Allaccio la bici al cancello arruginito e mi incammino per il sentiero che porta al porticato, mi siedo sulla vecchia sedia a dondolo di legno che, seppur cigolante, non mi ha mai abbandonato. Tiro fuori dalla mia borsa il libro che avevo portato e incomincio a leggere, godendomi l'aria di campagna.
*** 3 ore dopo ***
È ormai buio, sono le 20:45, forse è meglio che torni a casa. In queste tre ore ho finito il libro e sono andata nel garage per lavorare, come di consueto, al mio progetto. È un progetto che avevo trovato tra le cose di papà, che evidentemente lui non è riuscito a realizzare. Voglio farlo per lui, per papà. Prendo la mia bici e, slegandola e saltandoci su, ritorno a casa. Lungo la strada mi sento osservata e velocizzo le pedalate, già a quest'ora non mancano i malintenzionati e non voglio finire sui giornali come ragazza stuprata da un maniaco. Torno a casa e, rapidamente, apro la serratura entrando. Tiro un sospiro di sollievo e mi dirigo in cucina, mossa dalla fame. Quel panino al pomodoro non mi è bastato per tre ore. Mi cucino una cotoletta di pollo e dell'insalata e mangio tutto velocemente, metto i piatti e le scodelle nel lavandino e salgo in camera, tolgo il pigiama a pois blu da sotto il cuscino e, infilandomelo, mi lavo i denti e la faccia nel bagnetto che ho attaccato alla mia stanza. Sprofondando nel mio caldo lettuccio, non posso fare a meno di pensare che le mie giornate sono così monotone, sempre le stesse cose da fare e da dire, sto perdendo tutta la mia vitalità, che un tempo mi distingueva in tutto il quartiere. Prima ero "La bambina Duracel" dalla marca di batterie ricaricabili. Ero instancabile, curiosa, vivace e allegra, ora sono spenta e vuota. Ecco, se mi si volesse riassumere in una parola, allora questa sarebbe morta. Perché sono morta con papà.
*** il giorno dopo ***
Mi sveglio con il solito assordante rumore di quell'arnese metallico, che segna le 6. Mi alzo svogliatamente e scendo di sotto per fare colazione. Sedendomi sullo sgabello, allungo il braccio per prendere una fetta biscottata e la marmellata alle fragole, per poi spalmare quest'ultima sulla prima. Mentre assaporo la mia colazione, sento un urlo disperato che squarcia il silenzio mattutino e mi si gela il sangue. Giro la testa verso le scale, sentendo che il grido proveniva da lì, e molto lentamente mi dirigo verso il piano di sopra. Un altro straziante urlo irrompe nella mia testa ed affretto il passo. L'urlo proviene dalla stanza da letto di mamma ed ho paura. Tremendamente paura. Arrivo alla porta della sua camera e sento altri rumori a cui non avevo fatto caso in precedenza. Sembrerebbero...gemiti soffocati? Apro lentamente la porta, lasciando aperto solo uno spiraglio, quello che vedo mi paralizza. Un uomo mezzo nudo che non conosco è sopra la mamma e si muove avanti e indietro mentre la mamma piange. Ha una mano che le tappa la bocca e l'altra che le tiene ferme le mani. La sta stuprando. La mamma si accorge di me e spalanca gli occhi, emettendo suoni attraverso la bocca tappata, che interpreto come un "chiama la polizia". Intanto l'uomo segue lo sguardo di mia madre e mi vede, io in preda al terrore corro di sotto, afferrando il telefono dal tavolo, e scappando fuori di casa. Corro e corro neanche io so dove finché non arrivo di fronte ad una casa che mi è familiare ma non ricordo di esserci mai entrata. Cerco la cassetta della posta per vedere se conosco il cognome e appena leggo la scritta vorrei che fosse tutto un incubo. È casa Allen.
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