Uno. Lucciole e tenebre.

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Sharlisse era al limite. Era stanca di rimandare ciò che sapeva essere il proprio destino, l'esito immutabile della sua esistenza.

Da giorni, che forse erano settimane o mesi, rimuginava su quel pensiero. Finalmente era giunta a una conclusione: quello sarebbe stato il suo ultimo giorno.

Forte di quella decisione, con un sospiro di sollievo, posò gli occhiali sul libro aperto in grembo e alzò il volto, rivolgendo lo sguardo al panorama fuori dalla finestra: il cielo si stava rannuvolando.

Si strinse per un istante nello scialle di lana grezza, in cerca di un momentaneo conforto. Poi, con movimenti delicati e lenti, appoggiò libro e occhiali sul comodino. Ogni gesto le provocava dolore e un'incredibile fatica che nulla aveva a che fare con il fisico: era la sua essenza ad essere logorata. Questo l'aveva portata da tempo a muoversi come se fosse stata di cristallo.

Con un moto automatico le dita rugose tentarono di stirare le pieghe della gonna, senza risultato. In verità era solo un contrattempo, una pausa necessaria prima di provare ad alzarsi in piedi. Ogni volta che lo faceva non era sicura che ne sarebbe stata capace, che il suo corpo avrebbe ceduto e le avrebbe comunicato che, no, non si sarebbe mai più alzata da quella poltrona.

La schiena scricchiolò, ma ci riuscì. Ringraziò mentalmente per il successo e non si lamentò della fitta che stava impiegando qualche secondo a svanire. Chiuse la finestra e poi con gli occhi rivolti al terreno mosse ogni passo con premura, attenta a non inciampare, diretta verso la porta di casa.

Una volta fuori raccolse con solerte precisione il bucato, mettendolo nella cesta. Le piaceva l'idea di lasciare in ordine, prima di compiere il passo definitivo.

«Chissà se riuscirò a portare tutto» si domandò, gracchiando con la propria voce rovinata dal tempo, mentre osservava sconsolata la pila che stava accumulando. Non possedeva molte cose, ma erano quasi tutte lì.

«Scappa! Scappa! È la vecchia pazza!» sghignazzarono a mezza voce due bambini che fingevano di nascondersi dietro alla siepe di confine, consapevoli che Sharlisse li avrebbe visti e sentiti benissimo.

Come d'abitudine lei li ignorò, canticchiando tra sé e sé la filastrocca che i bambini del paese avevano inventato per lei. Poi, senza preavviso, si voltò verso di loro, smascherandoli. Emise un verso gracchiante che nulla aveva di umano e in risposta i due amici strozzarono le propria grida di sorpresa premendosi le mani sulla bocca. Girarono sui tacchi e scapparono, quasi Sharlisse li avesse maledetti.

Lei ridacchiò, scuotendo il capo e i lunghi capelli grigi. «Se solo anche gli adulti scappassero come i bambini» rimuginò tra sé e sé.

Un gatto bianco scelse quel momento per intrufolarsi tra le sue gambe, miagolando con urgenza. «Ah, Fel! Se solo tu potessi aiutarmi...» mormorò rivolta all'animale mentre recuperava il cesto della biancheria con qualche difficoltà.

Si incamminò verso casa proprio mente le prime gocce di pioggia cominciavano a scendere, bagnandola. Sharlisse lanciò un'ultima occhiata nei dintorni prima di rivolgersi a Fel. «Spero che siate rientrati tutti» gli disse, chiudendo la porta alle proprie spalle.

Nella penombra la donna posò la cesta sul tavolo e si mosse con attenzione verso la poltrona, schivando sistematicamente i gatti che continuavano a tagliarle la strada, miagolando per attirarne l'attenzione.

Trovò che Manì e Manù, due gattoni rossi, le avevano rubato il posto. Sharlisse però non ebbe pietà e con un gesto stizzito li scacciò, tornando a sedere.

Si concesse un sospiro soddisfatto. Si sentiva impegnata, attiva, benché il bucato avesse dovuto attendere tre giorni e una minaccia di pioggia per essere finalmente raccolto.

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