Venticinque. Albero bianco.

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Sharlisse riprese coscienza all'improvviso, stremata. Sentì dei crampi allo stomaco, la gola riarsa e tutto il corpo dolorante.

Si guardò attorno per capire dove fosse, ma non vide nulla. Sbatté gli occhi, convinta di averli ancora chiusi, ma la situazione non cambiò. Provò un'altra volta.

Non riusciva a rendersi conto se aveva gli occhi aperti o chiusi, il che la stava terrorizzando. Non esisteva buio che potesse risultarle così scuro, eppure si trovava nelle tenebre più complete.

«Sh, bambina» mormorò una voce sottile, vicina. «È un effetto del salasso, tra poco ti riprenderai.»

Sharlisse provò a sollevarsi, ad allontanarsi da quella voce sconosciuta, ma lo sforzo improvviso le provocò un giramento di testa e un mancamento. Cadde a terra e con le mani si tenne il capo, stringendolo in una ferrea morsa.

Inaspettatamente una mano della consistenza della carta le sfiorò il viso, mentre una canzone muta le toccò la mente, alleviandole un poco quel dolore.

Si riprese a stento, ma quando aprì gli occhi per l'ennesima volta, riuscì a vedere. E desiderò di essere rimasta cieca per sempre.

«Cos'è tutto questo?» domandò con voce rotta, gli occhi che si riempivano dell'orrore che aveva davanti a sé.

C'erano pile di corpi ammassati, essiccati, sfigurati da quella che era evidente apatia e dolore. Vecchi, donne e uomini. Bambini di ogni età. Moltissimi infanti, quasi fossero stati creati per essere buttati via. Sharlisse non si illuse nemmeno per un secondo che non fossero figli del sangue.

Il fetore di morte le invase le narici, prendendole la gola in ostaggio e con essa anche le parole di orrore. Come avesse fatto a non sentire prima quell'olezzo era un mistero.

Quando non ne potè più di quello spettacolo raccapricciante, si voltò a controllare chi l'avesse aiutata.

Incontrò due occhi sgranati, incavati in un viso sciupato e avvizzito come quello di una mummia, che la fissavano. L'uomo a cui appartenevano era l'ombra di un figlio del sangue, una sua pallida e caricaturale imitazione.

«Ti hanno portata le lucciole, bambina?» domandò con quella voce così sottile che era difficile credere provenisse da un uomo che nel fiore della sua forma doveva essere stato un guerriero.

Sharlisse annuì, incapace di trovare la voce per rispondere in altro modo.

«Non era questo che ti aspettavi, vero?» chiese ancora lui, ridacchiando come un bambino. «Ti hanno promesso un trono e ti trovi in una fossa comune.»

Lei si guardò attorno nel tentativo di capire dove effettivamente si trovasse.

Sapeva che non esistevano luoghi di morte tra i figli del sangue. Tradizionalmente essi venivano restituiti alla terra, mantenendo l'equilibrio. Dove uno di loro veniva sepolto il terreno diventava fertile, i boschi crescevano rapidi e floridi, la fauna prosperava. Intere civiltà si erano insediate e avevano prosperato grazie alla morte di uno di loro. Era il minimo che potessero fare, considerato quanto a lungo vivevano e quanto consumavano.

Quell'ammasso di corpi era uno spreco, nient'altro. Se era arrivata fin lì solo per morire non si sarebbe tirata indietro, ma chiedeva che almeno servisse a qualcosa. Invece quei corpi erano stati accumulati senza alcuno scopo apparente. Quasi fossero un segno di disprezzo per ciò che i figli del sangue rappresentavano.

Morire in battaglia era accettabile, ma non c'era segno di violenza su di loro. Erano stati uccisi nel modo più irrispettoso: spezzandoli dentro.

«Salasso?» domandò sorpresa, realizzando all'improvviso cosa le avesse detto il fratello di sangue, guardandosi le braccia.

Sangue e SogniDove le storie prendono vita. Scoprilo ora