62. Responsibility

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Elsa è una donna forte.
Lei è quella che davanti alle telecamere riesce a fare discorsi perfetti in tre lingue diverse. Quella che è incaricata di assistere i venti piloti migliori al mondo prima, dopo e durante le gare di Formula Uno davanti a milioni di spettatori.
L'unica donna che sia in grado di discutere faccia a faccia con i dirigenti della FIA e riuscire ad averla vinta.

Ma Elsa è anche quella che, quando la sera torna nella sua camera d'albergo e si ritrova sola, con la testa piena di pensieri in un letto vuoto in un paese sconosciuto nel mondo, vorrebbe solo un abbraccio.

Un po' ci aveva sperato, si era illusa che dopo il GP di Austin avrebbe passato la serata a giocare a carte con il piccolo Jack mentre Aaron e Daniel avrebbero guardato insieme una partita in TV stappando due birre: forse era questa l'idea più vicina alla parola 'felicità' che riusciva ad immaginare.

Ma quando la domenica sera dopo il gran premio di Austin, mentre in Europa era notte fonda e non poteva nemmeno scambiarsi un messaggio con un'amica, si ritrovava ancora una volta da sola, si sentiva così ingenua.

Sempre lo stesso errore: credere nelle favole.
Era passato esattamente un anno dal giorno in cui, grazie a Daniel, aveva rincontrato Aaron e Jack, ma la magia non si era ripetuta.

Aaron lavorava per l'FBI, e con le nuove allerte terrorismo non si era potuto muovere da Washington.
Jack al telefono non era riuscito a trattenere le lacrime di delusione.
Elsa neppure.
Lei e quel bambino condividevano un'eterna attitudine sbagliata nella vita: credere nelle favole.

Ma lei sentiva verso di lui un fortissimo senso di responsabilità. Era entrata nella sua vita, se n'era andata, aveva preso la decisione di tornare e ora non poteva abbandonarlo di nuovo. Non poteva lasciarlo di nuovo da solo a piangere sotto il letto mentre scopriva che la maggior parte delle storie non finiscono con 'e vissero tutti felici e contenti'.

Tra lei e Daniel le cose non andavano più così bene. Non perché non ci fosse più un sentimento tra loro, anzi, era esattamente il contrario.

Più si volevano bene, più diventava complicato, e più diventava complicato, meno erano felici.

Dopo il suo infortunio a Zandvoort erano rimasti lontani per due mesi interi, Elsa sperava che gli avrebbe fatto bene, e invece non avevano fatto altro che litigare al telefono perché non aveva l'autorizzazione a correre in Qatar perché la sua frattura ci stava mettendo più tempo del previsto a guarire.
Poi le era arrivato un piccolo, semplice, ma forse sincero, messaggio di scuse.

Hi Elsa, I'm sorry, you were right.
See you in Texas.

C'era lo zampino di Max, probabilmente.
E c'era qualcosa di profondamente sbagliato nell'aver chiamato un suo paziente perché la aiutasse nella sua relazione con un altro suo paziente.

L'aveva sempre saputo, ma se ne stava rendendo conto solo adesso.
Per questo non lo aveva mai chiamato in due mesi, e non gli aveva mandato messaggi.
Cominciava ad essere terrorizzata.

Immobilizzata dalla paura che qualcuno scoprisse tutto, perché sarebbe stata la fine delle carriere di entrambi.
O più probabilmente solo della carriera di lei, visto che alla fine il mondo rimaneva intrinsecamente maschilista e lui avrebbe avuto le spalle coperte da Horner, Verstappen, Marko e tutti gli altri.

Eppure Daniel le sembrava una delle cose più belle della sua vita. Ma forse non era l'unica cosa bella, e rischiava di perdere tutto per lui.

E poi il punto non era solo lei. Il suo lavoro comportava delle grandi responsabilità, dal suo lavoro fatto bene dipendeva la vita delle persone, una sua scelta a sangue freddo senza condizionamenti poteva fare la differenza tra una persona viva e una persona morta, e questo dipendeva da lei.

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