4. Henar

34 4 1
                                    

Realizzò cos'era appena successo. Spalancò la bocca in un'espressione di orrore, si portò entrambe le mani al viso. L'odore che l'aveva guidato fin lì impregnava l'aria, la saturava. Il cadavere era ancora fumante e sottili riccioli di quella nebbiolina odorosa si dissolvevano nell'aria ora immota della notte. Abbassò lo sguardo sulla carneficina che dita e denti avevano causato. Gli occhi del senzatetto erano chiusi, la bocca socchiusa lasciava intravedere un paio di incisivi neri. Tutto il corpo era ricoperto da una densa macchia scura. L'addome era come una scodella scavata nella carne: nella frenesia della fame, aveva fatto a pezzi tutto ciò che si frapponeva tra la sua bocca e la carne. Una parte di intestino penzolava sul cartone che la vittima aveva usato come letto come un pallido, flaccido verme. Il rene sinistro era abbandonato sui pantaloni dell'uomo, del destro rimaneva un solo lobo. Il cuore, a cui era arrivato rompendo un paio di costole, era ridotto a una pappa maciullata, così come i polmoni. Solo lo stomaco, in tutto quell'inferno, era rimasto intatto. Ivan tese un dito e lo toccò. Fu come rompere un incantesimo.

Alzò entrambe le braccia verso il cielo, con un gemito, e si spinse il più lontano possibile dal cadavere, strisciando sul selciato della piazza con il fondoschiena, come un ragno. Il singhiozzo si trasformò quasi subito in un lamento acuto, seguito dal pianto.

"No!" urlò, cercando di distogliere lo sguardo dalla sua opera d'arte. "No! Dio, no!"

Gridò. Vomitò con forza voce e aria, fino a ritrovarsi senza fiato. Cercò di indursi il vomito, quello vero, schiacciandosi due dita sul fondo della lingua. Percepì solo il meraviglioso sapore fruttato di quel sangue che pochi minuti prima aveva bevuto come acqua di fonte. Le allontanò da sé, e gridò di nuovo, per l'orrore e lo shock a causa di ciò che aveva appena fatto. Iniziò a singhiozzare, mentre si sfregava furiosamente le mani sulla felpa impregnata di sangue, nel vano tentativo di pulirle.

Non poteva essere reale. Non poteva. La sua mente andò in pezzi. Depersonalizzò, cominciò a osservarsi indifferente mentre piangeva, si gettava al suolo e iniziava a rotolare da un fianco all'altro in preda ai singulti. No, non poteva essere reale. Era solo un ladruncolo senza documenti, lui. Non era un assassino. In meno di ventiquattro ore non poteva aver ucciso due persone. Non poteva né doveva essere la verità.

"Dio, Dio, Dio" mormorava nella sua lingua madre, una litania nera senza inizio né fine.

Un pensiero scoppiò nella sua testa: non poteva essere reale, ma se lo era davvero... dove aveva messo quel pezzo di vetro? Avrebbe tentato di bere il proprio sangue, se si fosse tagliato le vene?

Gli spasmi rallentarono, fino a quando il suo corpo non si trovò in posizione fetale, disteso sul fianco destro, con il viso rivolto verso il cadavere. Ivan stringeva al corpo le braccia e le ginocchia. Si sentiva lo stomaco pieno, la bocca sazia. Il cibo normale non gli aveva mai dato quell'appagamento, quel senso di satollamento. Caldi lacrimoni rotolavano come pietre lungo le sue guance, mischiandosi con la pioggerellina gelata che aveva ricominciato a cadere.

"Mi dispiace" bisbigliò con un filo di voce, rivolto al viso in penombra della sua vittima, alla sua mano abbandonata sul selciato, alla chiazza di sangue che correva nelle fughe del lastricato, un domino liquido che pareva cercarlo, rincorrerlo alla cieca. Era il nuovo padrone di quel sangue, di quella carne, di quella vita strappata con poca eleganza. "Mi dispiace".

Una foglia secca crocchiò sotto il piede di qualcuno alle sue spalle. Il ragazzo scattò in aria, ritrovandosi in una disordinata posizione a quattro zampe. Il cuore gli pulsava dolorosamente nelle tempie, ma per quanto fosse disperato e sconvolto, non era pronto per morire.

C'era una figura in ombra che bloccava l'unica uscita dalla piazza. Era piuttosto esile e non doveva essere molto più alta di lui. Dopo qualche secondo di esitazione, fece un passo avanti e Ivan si rese conto che era una donna. I suoi occhi abituati al buio riuscirono a registrare un paio di informazioni. Doveva avere all'incirca trent'anni ed era vestita con un semplice paio di jeans e una maglietta a maniche lunghe a righe. Aveva i capelli chiari, raccolti in una coda. Prima che lui potesse anche solo muovere un muscolo, un soffio d'aria proveniente dalle spalle della ragazza colse il suo profumo e lo portò alle sue narici. All'improvviso un forte senso di nausea, quella vera, lo colse di sorpresa. La donna sembrava essere avvolta in una nube di aroma di vaniglia, così forte che a Ivan parve di averlo sulla lingua. Sollevò un ginocchio, mettendo il piede a terra. Con fatica e traballando riuscì ad alzarsi, perché non sapeva cosa sarebbe successo e aveva paura.

Picky EatersDove le storie prendono vita. Scoprilo ora