5. Funeraria Valdomar

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Camminarono in silenzio per un tempo che a Ivan parve sospeso. Forse passò un’ora, forse due. Per un folle secondo, dopo più di mezz’ora, si chiese se non fosse il caso di dire a Henar che potevano prendere un bus notturno, per dovunque stessero andando. Poi il profumo del sangue, ancora umido sulla sua felpa, pantaloni e pelle, gli aveva ricordato bruscamente che no, la vita da umano spiantato ma innocuo era terminata quella notte. 

Henar lo procedeva di un paio di passi. Sotto le pozze di luce dei lampioni, Ivan notò che indossava un paio di vecchie sneakers bianche e per questo lei faceva molta attenzione a evitare le pozzanghere. Lui, i cui calzini erano ormai sdruciti, ignorava i piccoli stagni formatisi in strada, concentrato com’era a valutare dove soffiasse la brezza, per trattenere il fiato nel momento in cui avesse portato l’olezzo di vaniglia della sua accompagnatrice verso di lui. Attraversando il quartiere nel silenzio della notte, colse altre note di profumo, tutte diverse: si andava dal dolce fruttato allo speziato piccante, dal tenero aroma di fragole mature alla puzza gustosa del formaggio di pecora stagionato, passando per il fritto di pesce, i peperoni glassati, le lenticchie stufate. Ma alla fine il tanfo dolciastro di Henar vinceva su tutti quelle esche invitanti e il ragazzo smetteva di annusare con attenzione l’aria e tornava a concentrarsi sui suoi passi.  

“Dovresti iniziare a ignorarli” commentò la giovane donna, quando Ivan dovette fermarsi all’improvviso, colto dalla improvvisa e potente fragranza di pizza appena tolta dal forno a legna. “Più ci fai caso, più avranno potere su di te. Non hai davvero fame, hai appena mangiato. Impara a ignorarli. Non sono reali”.

"Come non sono reali?” domandò lui, aggrottando la fronte ma ricominciando la marcia. “A me sembrano veri”.

“Come vere sono le persone da cui provengono” rispose indifferente lei. “Hai già dimenticato cos’è successo stanotte?”

No, ovviamente. Ivan non aveva affatto dimenticato. Anche solo quel discreto accenno alla faccenda lo fece trasalire. Decise di abbassare la testa e seguire il consiglio. Il profumo e la fame l’avevano condotto a quel destino assurdo. Meglio non dare loro corda. Soprattutto con la pancia piena. Per un secondo il ricordo del corpo sventrato del senzatetto e l’immagine del suo stomaco teso a causa della carne ingerita gli diedero la nausea e pensò che avrebbe vomitato. Poi la fragranza di ciliegie mature riportò la sua labile attenzione al presente e all’acquolina in bocca. 

“Dove stiamo andando?” chiese, nel vano tentativo di ubbidire al consiglio di Henar e non fare caso a quelle esche invitanti. Lei non si voltò. Si limitò a rispondere: “A casa mia”.
“Perché mi stai aiutando?”
“Sei un pericolo per te stesso, per gli altri e anche per noi”.

Fino a quel momento la ragazza gli aveva parlato in modo pacato, quasi indifferente, ma in quel momento la risposta fu secca e Ivan capì che doveva tacere. Attraversarono un vicolo e si ritrovarono in un ampio spazio all’improvviso. Capì subito perché Henar l’aveva zittito: la piazza ben illuminata in cui erano entrati era costellata di tavolini e un paio dei bar presenti erano ancora aperti nonostante la tarda notte. Il venticello fresco della notte portava verso di loro le fragranze di quegli umani. Nell’aria si udivano le note di un sassofono jazz e i pochi avventori chiacchieravano e ridevano poco lontano da loro. 

"Di qua” gli disse, facendo cenno di avvicinarsi all’ombra gettata dalla chiesa che costeggiava l’entrata della piazza. Ne percorsero rapidi e silenziosi il perimetro, fino all’imbocco di una vecchia stradina di case a due piani. Sotto uno degli antichi lampioni agganciato sulla parete di una di queste, Ivan ne lesse il nome: Calle Juan Bautista Corachán.

Henar avanzò lungo il marciapiede. Superarono un palazzo di almeno cinque piani e un altro paio di portoni e un garage, prima di fermarsi dinnanzi a una casa con una grande porta ad arco, marcata dal numero civico 18. A suo lato, si aprivano due alte finestre protette da una inferriata, altre tre si affacciavano su un balconcino di ferro battuto al piano superiore. 
Era una bella casa. Probabilmente il rudere dove aveva abitato con Oleg aveva avuto un aspetto simile, nella sua vita precedente. 

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