6. Gli Schizzinosi

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Ivan rimase in silenzio per un lungo momento, osservando prima l’uomo, la ragazza e viceversa. Infine, timido, domandò: “Anche voi siete… siete…”

“Cannibali? Antropofagi? Sì”.

“Purtroppo, sì. Da molti anni”.

“E… non c’è una cura?”

“Purtroppo no” rispose con rammarico Joel. “Purtroppo no, ragazzo mio”.

Lui si agitò sulla poltroncina. Va bene, quella era stata la notte più assurda e terribile della sua grama esistenza. Tuttavia, c’era una bella differenza tra il pensare che fosse stato tutto frutto di un delirio violento indotto dalla febbre – non facile da perdonare, ma quantomeno comprensibile: avrebbe evitato la carne per il resto della propria vita e fatto penitenza – e il rendersi conto che, mania a parte, quella sarebbe stata in tutto e per tutto la nuova realtà. Era stato facile seguire Henar, abbandonare Oleg e la loro casa occupata e la sua vita da giovane clandestino ladruncolo, perché gli era sembrata l’unica via d’uscita per l’incubo che si era svolto nella piccola piazza dell’arancio. Ma ora in quella piazza rimpiangeva di non essere rimasto.

“Non può essere così” riuscì solo a mormorare con tono monocorde.

La pietà negli occhi di Joel era insopportabile, ma ancora più insostenibile era lo sguardo d’acciaio della ragazza dietro di lui. Le era sembrata gentile quando si era parlati per la prima volta, ma ora era un’altra persona, come se si fosse calata in un nuovo ruolo. Joel aveva l’aspetto di uno che si era consumato nelle lacrime per tutto il pomeriggio, mentre Henar pareva non esprimere alcuna emozione, esclusa una solida e severa attenzione rivolta verso di lui e una bizzarra premura nei confronti dell’uomo le cui spalle proteggeva. Emanava determinazione e quel terribile aroma al gusto di vaniglia.

“Sai…” iniziò Joel, accennando un sorriso infelice, “negli ultimi anni sono successe molte cose brutte. Tu sei giovane, giovanissimo, ma hai già vissuto qualche pandemia. Pensiamo che questa malattia… questa condizione… non sia poi così diversa da uno dei molti virus e batteri degli ultimi tempi. Solo che non ci uccide, ma cambia i nostri comportamenti, le nostre abitudini”.

Si fermò, come aspettandosi una reazione, ma Ivan era silenzioso, annichilito nella poltroncina color pesca, sotto shock. Per questo aggiunse, cercando di imprimere nelle sue parole un’allegria che era difficile anche solo inscenare: “Mettila così, siamo umani molto schizzinosi”.

“Schizzinosi” ripeté il ragazzo, come un automa. Quella definizione, però, parve risvegliarlo leggermente. Si guardò attorno e chiese: “Uccidete le persone?”

Joel sgranò gli occhi come se una domanda del genere fosse totalmente inaspettata.

“No, affatto”.

“E allora come mangiate tutti i giorni?”

Henar allargò le braccia con un accenno di sorriso incredulo, come se non si capacitasse che Ivan non l’avesse capito subito, indicando le pareti del luogo in cui si trovavano, mentre l’uomo rispondeva: “La casa funeraria”.

“Mangiate i morti che arrivano qui?”

Ivan ebbe un moto di nausea.

“Una parte. Quello che si riesce. Dipende dal funerale voluto dalla famiglia, dalle condizioni del corpo, dalla presenza di malattie infettive…”

Joel parve afflosciarsi un poco nella poltrona, come un fiore maltrattato dal vento. Dopo qualche secondo, aggiunse: “L’unica maniera etica per vivere con questa condizione”.

“Qual è l’alternativa?”

Questa volta fu la ragazza a rispondere. “Uccidersi”.

Ivan la guardò negli occhi. Alla luce aranciata delle lampade turche, le iridi di Henar risplendevano come ambra. Non era carina come lo era stata Lutxi: possedeva un viso lungo e spigoloso, con un naso sottile e aguzzo, occhi leggermente a mandorla e sopracciglia sottili. Dallo scollo a barca della sua maglietta si intravedevano le clavicole ossute. Era seria, severa. Il ragazzo deglutì a fatica e finalmente trovò il coraggio di chiedere: “Morirò per quello che ho fatto? Mi mangerete?”

Joel scosse piano la testa, con quel sorriso triste e perso con cui l’aveva accolto in casa.

“Non mangiamo i nostri simili. Non abbiamo un odore appetibile per gli altri che sono come noi. Questo probabilmente significa che non possiamo cibarci delle nostre stesse carni”.

Ivan non era più tranquillo. Avrebbero potuto farlo comunque a pezzi e poi sotterrarlo in giardino, per quanto ne sapeva. Stava per insistere di nuovo, quando Joel lo anticipò dicendo: “Sappiamo cos’è successo con Lutxi, Ivan. Non verrai punito per quello che è successo. Nessuno qui presente ha il potere di farlo, né di giudicare. Solo il Signore può. Ne parleremo, ma quando ti troverai in condizioni migliori”.

Fece un cenno verso la sua felpa. Lui abbassò lo sguardo e con orrore si rese conto che il tessuto, che in origine era verde, ora era divenuto nero. Era totalmente imbevuto di sangue, ormai parzialmente secco. Si chiese in che condizioni potessero essere il suo viso e i suoi capelli.
Realizzò solo in quel momento che Henar l’aveva condotto all’agenzia di pompe funebri con lo scopo di farcelo rimanere. Si agitò sulla poltrona e decise di mettere le mani avanti: “Non ho soldi per pagare l’alloggio”.

“Non c’è affatto bisogno di pagarlo. Se vorrai rimanere, entrerai a far parte della nostra… chiamiamola famiglia. Ognuno ha un ruolo, qui”.

“Famiglia? Quanti siete?”

Joel scosse la testa e rispose: “Ne parleremo domani. È stata una giornata molto dura per tutti. È necessario un poco di riposo”.

“Lo accompagno io” propose Henar, facendogli cenno di alzarsi. Ivan scattò in piedi, come se il semplice gesto della ragazza gli avesse trasmesso una scossa elettrica. Accennò un sorriso di ringraziamento verso l’uomo, che ricambiò, ma sempre con quell’espressione vagamente sognante, dopodiché seguì la ragazza verso la porta da cui i due erano apparsi poco prima. Si sorprese di trovarci un altro battente, molto più grande di quello appena sorpassato e provvisto di vetri protetti da tendine, e al suo fianco una scalinata che curvava verso sinistra. Gli scalini erano larghi ma stretti, decorati da un mosaico con motivo geometrico bianco e nero. Henar lo aspettava sulla curva a gomito, di fianco a un grande vaso dall’aspetto antico, una mano appoggiata al corrimano in ferro battuto. L’unica lampada presente non era in grado di illuminare ogni angolo buio, perciò le scale erano in penombra, e la sua magra accompagnatrice per un secondo parve una figura tetra, in attesa.

Ivan iniziò a salire le scale, silenzioso e cauto. Procedettero una davanti all’altro fino al primo piano. Si trovarono al bivio di un lungo corridoio con due braccia perpendicolari, in cui si aprivano numerose porte su entrambe le pareti. Henar avanzò verso sinistra e sorpassò tre porte, prima di fermarsi tra la quarta e l’ultima, sulla destra.
“Qui c’è il bagno” disse, appoggiando una mano sulla penultima. “Puoi considerare tua l’altra camera”.

Ivan avanzò sotto il suo sguardo e si avvicinò alla quinta porta. Henar non disse niente quando lui appoggiò la mano sulla maniglia, l’aprì e accese la luce. Si trovò davanti una grande stanza con due letti singoli addossati alla parete sinistra. Entrambi erano affiancati da due comodini, ma solo quello più vicino alla finestra era occupato da una lampada, una graziosa abat-jour a forma di calice di fiore. La scrivania sull’altra parete era piena di oggetti, così come la libreria e l’armadio a muro, entrambi affiancati alla portafinestra, che pareva dare su un balconcino. Sopra il letto che sembrava essere di qualcuno vi era una graziosa copertina di maglia rosa e poco sopra la testata c’era una foto. Ivan mosse un piede all’interno e la osservò.
Riconobbe immediatamente il caschetto nero lucido di Lutxi, anche se la creatura sorridente ritratta sembrava più giovane. Era la bambina più felice del mondo, mentre si appendeva con le sue braccine ossute al collo di una donna che aveva i suoi stessi brillanti occhi scuri e lisci capelli color ossidiana.

“Non abbiamo un altro letto” disse Henar dietro di lui. Ivan si voltò. Non poteva credere che volessero che dormisse nella stanza della ragazza che aveva ucciso.

“Perché?”

“Te l’ho appena detto” rispose lei, guardandolo fisso negli occhi. Ivan sapeva che c’era dell’altro, che probabilmente quella era solo una scusa, ma non insistette. Deglutì, poi tornò a guardare di nuovo i due letti.

“Joel mi ha detto di lasciarti qualche vestito nell’armadio. Vedi se ti vanno bene, domani ti troveremo qualcosa di meglio”.

I due si guardarono per un paio di secondi, ma Henar distolse rapidamente lo sguardo. Gli diede la buonanotte con un cenno e chiuse la porta. Ivan, rimasto solo, si voltò a guardare di nuovo la foto di Lutxi e della donna abbracciate. Si avvicinò con passi grevi all’armadio e lo aprì. Straripava di vestiti femminili di taglia minuta, ma riuscì a trovare quasi subito la maglietta nera e i pantaloni della tuta di cui aveva fatto cenno la ragazza. Li afferrò. Dietro di loro, mezzo soffocato da una pila di maglioncini, c’era un peluche. Il ragazzo prese anche quello e si accorse che era un piccolo riccio dagli aculei morbidi. Aveva il muso appuntito e vivaci occhietti neri. Lo appoggiò sul suo nuovo letto e fu a cambiarsi nel bagno che Henar gli aveva indicato – una luminosa abitazione provvista di grande vasca da bagno su piedistallo, cabina doccia e sanitari color crema. Si rese subito conto del disastro che aveva fatto: i capelli erano rigidi per il sangue secco e tutto il suo corpo sembrava essere stato immerso nell’argilla rossa. Cercò di lavar via tutto quell’orrore, lasciandosi scorrere addosso l’acqua per quasi mezz’ora – erano forse anni che non si faceva una doccia di un bagno vero – e tornò, a piedi nudi, nella sua abitazione. I vestiti gli andavano grandissimi e aveva dovuto arrotolare il tessuto dei pantaloni sulle caviglie per evitare di cadere, ma gli sembrava di essere rinato.
Si mise a letto, stringendo il piccolo riccio tra le braccia. Aveva un leggero profumo di rose.

Rivolse il viso verso la foto di Lutxi e finalmente si permise di piangere come il semplice e disgraziato ragazzo di diciannove anni che fino al giorno prima era stato. Pianse per i morti che aveva sulla coscienza, per l’amico perduto, per le poche speranze sul futuro ormai sfumate. Pianse perché non voleva essere uno schizzinoso. Pianse, implorando un Dio in cui non aveva mai riposto molta fiducia di permettergli di risvegliarsi sul suo scomodo e vecchio materasso, nello smorto grigiore di un’alba granisquera.

Di trasformare tutto quell’orrore in un sogno da cui sarebbe stato facile svegliarsi.   

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