L'Altrove

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Era una notte trapunta di stelle quella sopra di lui. Non somigliava per niente alla oscurità plumbea che l’aveva colto, febbrile e affamato, strisciare come una bestia per le vie desolate del suo quartiere. No, certo che no: quella notte era limpida e tersa, e gli astri bianchi ammiccavano come bottoni lustri in quel nobile velluto.

Si era ritrovato seduto su uno scoglio appuntito, ancora pervaso dal tepore pomeridiano. Sotto di lui, il mare rumoreggiava ritmicamente, mentre le onde catturava i riflessi delle luci celesti e quelle più calde della città. Fu una piacevole sorpresa ritrovarsi nella Marina Real. Sembrava passato così tanto tempo dall’ultima volta in cui si era avventurato per il lungomare turistico: era una zona pericolosa per un furfantello come lui, la polizia del paseo maritimo aveva occhio per le facce affamate e gli sguardi in caccia.

Ma aveva anche bei ricordi di quel luogo: vi aveva mangiato qualche gelato quando gli affari andavano bene. In un tempo lontano, che sembrava appartenere alla vita di un altro, aveva stretto la mano di una donna mentre il sole baciava i capelli biondi di entrambi.

“Allora non è vero che possiedi solo brutti ricordi”.

Ivan piegò leggermente la testa verso destra, occhieggiando alle sue spalle. Non fu una sorpresa, questa volta, incrociare il sorrisetto birichino di Lutxi. Era in piedi proprio dietro di lui, con le braccia nascoste dietro la schiena. Si dondolava ancora una volta sui sandali, questa volta vestita con una salopette di jeans e una maglietta a pois bianchi e neri.

Il primo pensiero fu quello di protestare e ribellarsi, ricordandole di nuovo che era morta e che quello doveva essere solo un sogno strampalato. Invece, Ivan fu pervaso da una strana calma. Come l’aveva chiamato Lutxi? L’Altrove? Ecco, si trovavano in quello strano posto che forse era un’allucinazione o forse un miraggio, dove non c’era fame, né cannibali, né dolore, sangue, terrore. In fondo, era un bel posto dove trascorrere un po’ di tempo.

“Penso che sia difficile ricordarmi delle belle cose” ribatté, stringendosi nelle spalle. Il viso della ragazza si illuminò, probabilmente perché Ivan non aveva dato di matto. Si avvicinò a lui e saltò sullo scoglio al suo fianco, rimanendo in equilibrio su un piede solo e allargando le braccia come una gru.

“Io non ci sono venuta spesso, qui. A mia mamma non piaceva. C’era sempre troppa gente, troppi odori. A me non davano fastidio, ma a lei provocavano dei gran mal di testa”.

Ivan annuì, come se capisse la sofferenza descritta.

“Era come te tua mamma?”

“No”, ribatté Lutxi, cambiando gamba con un saltello. Ripeté il movimento, prima di aggiungere: “Io sono nata così. Mia mamma era come te, e Joel, e Henar, e tutti gli altri”.

“Cioè era stata infettata?”.

“A Joel non piace che ci definiamo malati, ma immagino che sia la definizione corretta”.

“Per questo tu hai quei denti strani?”

Ivan si accorse subito di aver esagerato con la domanda, perché Lutxi smise il suo gioco d’equilibrio, posò anche l’altra gamba sulla pietra e lo guardò per un istante. Poi, si mise le mani sui fianchi e commentò: “Sei un gran maleducato”.

“Scusa, non volevo offendere”.

“Non lo so perché ho i denti strani. Sono nata così. Non conosco mio padre. Forse li ho ereditati da lui, Victor dice sempre che doveva essere un hombre lobo, perché a mia mamma piacevano uomini un po’ selvaggi e alternativi”.

“Chi è Victor?”

“Lo conoscerai”.

Rimasero per un po’ in silenzio, ascoltando l’infrangersi delle onde contro la scogliera artificiale della Marina Real. Ivan pensò che forse l’Altrove era ben più bello della vita reale. Non gli sarebbe dispiaciuto rimanere, la compagnia di Lutxi non era così male. Lì non avrebbe mai più avuto fame.

“A mia mamma il porto piaceva, invece” mormorò a bassa voce. “Ci venivamo spesso nei fine settimana”.

Lutxi annuì, come se già lo sapesse perché i ricordi di lui non erano un segreto.

Ivan non vide il motivo per cui attendere un suo gesto. Continuò: “Ci teneva che ci vestissimo bene almeno la domenica e venissimo qui, a passeggiare come la gente per bene. Volle venire qui fino a quando fu troppo debole. Non ci sarebbe mai stata una domenica che non fosse almeno un pochino di festa, per lei”.

Il ragazzo spostò lo sguardo dalla sua accompagnatrice e lo sospinse verso le onde che si infrangevano sulla spiaggia. Le luci dei grattacieli e degli hotel di lusso pulsavano al ritmo dei battiti del suo cuore. Aggrottò le sopracciglia e provò uno strano dolore al petto, perché il ricordo doleva, ma la mancanza di lacrime era la cosa peggiore. Aveva seppellito così a fondo quella sofferenza nelle sabbie infide della sua mente che, quando giungevano momenti in cui era doveroso ricordare e soffrire, gettando le mani in quelle pozze catramose non riusciva più a trovare alcunché. Nessuno gli aveva mai preso le mani e se l’era strette al petto, sussurrandogli che era normale. Non l’aveva fatto Tamara, l’amica di sua madre, né gli assistenti sociali che si erano preoccupati per qualche mese di lui. Con Oleg vi era sempre stato un tacito accordo: non si parlava del passato, soprattutto di ciò che poteva rendere l’uno debole alla vista dell’altro.

“Si chiama Ulises”.

Ivan si riscosse di colpo dai suoi pensieri. Tornò a guardare Lutxi, che aveva preso posto sullo scoglio davanti al suo.

“Come, scusa?”

“Il riccio. Si chiama Ulises”.

Il ragazzo ricordò il peluche che aveva trovato nell’armadio. Per un momento temette che rammentare la sua esistenza avrebbe rotto l’incantesimo dell’Altrove, ma ciò non successe. Lutxi accennò un sorriso.

“Dovrai trattarlo con cura. È una delle poche che mi rimangono della mia seconda vita. È un regalo di Victor e sono più che certa che non apprezzerebbe la sua perdita”.

Era già la seconda volta che la ragazza citava quel tale. Ivan iniziò a provare molta curiosità nei suoi riguardi, ma quando fece per chiedere informazioni, Lutxi lo batté sul tempo.

“Hai seguito il mio consiglio sulla fame”.

Ivan rimase in silenzio per qualche secondo, lasciando che il suono delle onde riverberasse nella sua testa e trascinasse via quella frase. Poi sospirò. Luogo felice o meno, la realtà della sua vita lo seguiva ovunque, anche in quelli che sembravano essere sogni.

“Sì. Cioè, in realtà non ho avuto scelta. Il mio corpo…"

“È successo a tutti come quelli te. Non ti devi sentire in colpa”.

“Non mi sento in colpa. Vorrei non averlo fatto, ma soprattutto vorrei non essere costretto a ripeterlo”.

“Cosa, uccidere?”

Il ragazzo annuì lentamente, mentre affondava il viso nelle mani, gli occhi spalancati verso la pietra calda e nera dello scoglio.

“Non sarà necessario uccidere. Joel non te lo permetterebbe neanche. Non devi avere paura: fai come gli altri e andrà tutto bene”.

“Mi hanno detto che non c’è cura”.

“Certo che non c’è, altrimenti non saremmo qui”.

Non parlarono per un po’. Lutxi si sedette al suo fianco, come aveva fatto la prima volta che era entrata nella sua mente. Ivan percepì che gli stava accarezzando i capelli, mentre si nascondeva ancora il viso. Gli sussurrò parole per confortarlo, ma ogni sillaba entrava nella sua mente come una nota musicale e così la dimenticava. Sapeva solo che Lutxi era lì con e per lui e che la morte era stato solo un nuovo inizio. Per entrambi. Assieme. 

“Ora devi andare” gli sussurrò a un certo punto, e Ivan capì. “La tua nuova vita sta per cominciare”. 

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