7. Beatitudo, eravamo felici

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«Hajime, sta piangendo. Hajime per favore, alzati e prendilo. Ho mal di testa.»

Non ottenni risposta, solo un mugolio di dissenso e il fruscio del piumone tirato su. «Hajime, per favore. Prendilo, Cristo. Sta piangendo.»

«Alzati tu.»

Mi portai una mano sul volto mentre i singhiozzi disperati si facevano sempre più profondi e ansiosi. Sbuffai, cercando di tirarmi su. Le lenzuola mi si erano aggrovigliate addosso come una rete da pesca, impedendomi di uscire.

«Bastardo.» bonficchiai, riuscendo finalmente a districarmi da quel groviglio di braccia e teli. Non appena misi i piedi a terra, il freddo pungente del pavimento mi si attaccò addosso come un piragna. Frugnai affianco al comodino, raccattando la mia vestaglia. Me la infilai e sgambettai fino all'estremità del letto.

«Sssh, mamma è qui.»

Allungai una mano dentro la culla e sfiorai il piccolo corpicino all'interno. Era caldo e bagnato di saliva.
Con gli occhi ancora per metà socchiusi, lo presi tra le braccia. Provai ad avvicinarlo al petto, accarezzandolo piano, ma non solo quel piccolo demonio prese ad urlare più forte, ma si dimenò e scalciò, furioso. Proprio non gli piacevo, e non capivo perché. Ero la sua mamma, l'omega che lo aveva avuto nella pancia per nove mesi, colui che si era fatto modificare il corpo, che aveva imparato a sopportare le smagliature sulle cosce e l'aumento smisurato dei capezzoli, solo per perdere a lui di nascere, ma quello non ne voleva sapere di accettarmi. Stava in silenzio solo quando era quel maledetto di suo padre a prenderlo tra le braccia.

«Hajime, è l'ultimo avvertimento. Puoi per favore, alzare il culo e prendere tuo figlio?» sbottai, più stanco che arrabbiato.

Di nuovo, nessuno oltre i muri mi rispose. Lentamente, raggiunsi la cucina. Il bambino piangeva senza alcuna remora, sbavando contro la mia maglietta oversize, sgualcita e macchiata di vomito. Il vomito del bambino, e la sua bava.
Mi ero ormai rassegnato ad utilizzare solo abiti “usa e getta”, visto il vizio di mio figlio. Era nato da tre mesi e già aveva acquisito alcuni “vizietti”.

Certo, non potevo farne una colpa al bambino, quanto più che al padre.

Koko, da bravo riccone, alpha e ceo di una banca, aveva imparato al bambino che piangendo, avrebbe ottenuto tutto quello che voleva. Anzi, che lui glielo avrebbe dato. Ed io, con le doglie del cesareo, con il grasso che si accumulava sulle cosce e sulla pancia, con i mal di testa costanti e i nervi a fior di pelle, cosa potevo farci? Non che non gli impedissi di farlo, ma semplicemente, quando arrivava la sera e Hajime si alzava a prenderlo, non mi importava più quale metodo usasse per farlo smettere di strillare.

«Sssh, tesoro. Papà ti preparerà il lattuccio e-»

Nulla, se anche a mio figlio fosse importato precedente della mia povera testa, ormai non ci prestava più attenzione. Strillava e strillava, senza ritegno, a pieni polmoni e con le guance rosse come le foglie dei papaveri. Mi passai la mano libera sulla fronte, massaggiandomi le tempie.

Avevo messo il latte in polvere nel biberon, mentre attendevo che l'acqua sul gas, bollisse.
Mio figlio, mangiava ogni tre ore, e mangiava così tanto, che temevo che presto il capitale di Hajime, si sarebbe estinto e saremo rimasti al verde, nella mega villa dove ci aveva portato ad abitare, con più stanze da letto di quante che ne fossero in un hotel e così tanti bagni che a volte mi perdevo.
Però Hajime aveva insistito, ed io, non avevo mai saputo dirgli di no.

Abitavamo in quella meravigliosa, gigantesca e rossa villa, quella che i nostri amici ammiravano e ci invidiavano, e che i miliardari in vacanza, avrebbero fatto carte false per potersi permettere. Non avevo mai chiesto a Koko quanto gli fosse costato quel posto, anzi, temevo di scoprirlo. Anche se, avevo proposto - senza successo alcuno - di dividere le spese condominiali e delle bollette.
Inutile specificare che Koko non mi aveva permesso neppure di aprire bocca. Mi aveva sempre detto che mi avrebbe comprato tutto quello di cui io e il suo piccolo, adorato, Midori. Mi aveva perfino dato un'American Express, carta che credevo fosse una leggenda metropolitana. Non ne avevo mai vista una, e nel trovarmela in mano, la prima cosa che avevo pensato, era stata di restituirla; i miei genitori mi avevano insegnato che non dovevo tenere cose di cui non potevo ripagare il valore.

Cruor, KokonuiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora