5. Mirum

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«Merda» mormorò.

La pioggia scendeva come fulmini lungo la strada. La osservavo cadere e imbrattare tutt'attorno, gli occhi socchiusi e le buste tra le dita.
Sarei dovuto rientrare in casa, ma l'idea di fare due piani di scale a piedi, non mi allettava affatto. Avevo un mal di schiena terribile, in più, la pancia non faceva che ostacolarmi in ogni movimento.

Sanzu non era in casa.
Mi aveva accompagnato a fare spesa, ma proprio quando eravamo alle casse, a fare la fila, il suo cellulare aveva preso a squillare. Haru aveva risposto, lo avevo visto sbarrare gli occhi, poi aveva detto qualcosa e aveva riattaccato. Mi aveva spiegato che uno dei pazienti del centro dove lavorava, aveva avuto una crisi. Gli avevo detto di andare senza alcun problema, che me la sarei cavata da solo. Certo, aveva insistito per restare con me, riportarmi a casa e lasciare lì la spesa, ma lo avevo tranquilizzato.

Lui, titubante, era corso via.

Fare la spesa non era stato un problema per me, ma arrivare a piedi fino a casa si era rivelato più complicato di quanto mi aspettassi. Non solo non avevo più il ritmo di un tempo, ma ero anche estremamente grasso e quello che un tempo mi sarebbe sembrata una sciocca camminata, ora pareva un'impresa olimpionica. Anche se alla fine ero riuscito a tornare a casa, sano e salvo, ero maledettamente affaticato.

Mi ero fermato a riprendere fiato, con le buste che pesavano ai lati del mio corpo e la fronte cosparsa di sudore freddo, nonostante fosse solo Marzo.

Quando avevo valutato l'idea di salire le scale, - ben trentadue scale per la precisione - mi era venuto il batticuore. Mi ero immobilizzato, di fronte al portone del palazzo, sperando che qualcuno saltasse magicamente fuori e mi portasse su quelle stramaledette buste gremite.

Sbuffai, guardandomi attorno.

La città si era risvegliata da poco, al mattino, di solito, giravano qua e là i soliti signori che andavano a fare colazione al bar, quelli che si accingevano ad andare a lavoro, quelli che volevano godersi qualche attimo di pace prima della stressante e tempestosa routine.
Non c'era nessuno che io conoscessi.
Avrei potuto chiamare qualche mio amico, Chifuyu, Takemichi magari, ma non mi andava di disturbare, e poi, non volevo affatto mostrarmi debole.

Stavo affrontando una gravidanza, non una malattia terminale.

Un lieve tocco sulla spalla mi fece sussultare. Lo udii debole e lieve come se ci si fosse appena posato un fiocco di neve. Mi voltai di scatto, le buste che si piegavano vicino ai miei fianchi e la pancia a farmi da ostacolo per metà busto.

«Ma chi-»

«Serve aiuto?»

Me lo ritrovai davanti, perfetto come lo era sempre, nel suo bel trench nero fatto su misura. I ciuffi color ardesia ballavano qua e là, ondulati su sé stessi come piccoli riccioli di mare.
Lo osservai, il giusto necessario ad accertarmi che fosse ancora lui, che fosse vero e che no, non lo avevo immaginato.

«Koko…»
«In persona.»

Chiusi le labbra, cercando di darmi un contegno. Dovevo avere un aspetto orrendo, con le guance rosse per lo sforzo e il freddo, e gli occhi vitrei.

«Che ci fai qui?» riuscii a biascicare. Lui sorrise, uno di quei sogghigni rapidi, ma veri.

«Ero di passaggio.»

«Di passaggio? Tu…»

Non lavori qui, avrei voluto dire, ma ancora prima di rendere quelle lettere reali, mi soffermai. Io non sapevo affatto dove si trovava l'ufficio di Koko, né tantomeno dove fosse la sua azienda.

Cruor, KokonuiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora