2. A mors

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«Inui? Ti senti bene?»

Qualcuno mi stava scrollando il braccio. I miei pensieri parvero dissolversi momentaneamente nell'incontrare il volto sorridente di Takemichi. Mi osservava con i suoi grandi occhi blu, uno sprazzo di entusiasmo che non riusciva a contendere nelle iridi. Mi era passato a prendere quel pomeriggio, insieme a Mikey, suo ragazzo da ormai tre anni, e ora saltellava di qua e di là, non volendo dirmi cosa e perché dovessi andare con loro ad una festa.
Avevo anche provato - inutilmente - a chiedere a Mikey, ma quello, dopo un'occhiata da parte del fidanzato, sembrava essersi cucito la bocca con ago e filo.

Sospirai. Abbozzai un sorrisetto - quello migliore che riuscii a mettere su - e annuì.

«Certo, sto bene.» mormorai.

Se lui non ci credeva, non lo diede a vedere. Continuò a zampettare qua e là, attaccato al braccio di Mikey e al mio, trascinandoci con lui ad ogni saltello. Non ero riuscito a spiegarmi la sua incontenibile vivacità e anche se ci avevo provato, il mio cervello non sembrava collaborare. Perso nei miei pensieri da quando ci eravamo messi in strada, non riuscivo a farmi venire in mente nulla, a parte le solite paranoie che mi correvano in testa come mosche impazzite. Le sentivo ronzare tutto il giorno, come i grilli d'Estate e nonostante fossi al limite di sopportazione, non avevo aperto bocca. Con nessuno.

Sarei risultato pazzo. Ero certo che tutti mi avrebbero considerato un folle per quello che stavo scegliendo di tenere segreto e di preservare. E non ci tenevo proprio.

A strapparmi ancora da quelle idee, fu il rallentare di Takemichi. Lo avvertii frenare all'improvviso e se non fosse stato per il braccio di Mikey, prontamente proteso in avanti, ci saremo entrambi schiantati con il viso contro la vetrina.

«Siamo arrivati!» sentenziò il biondino, tutto febbricitante.

Mikey gli disse qualcosa che non riuscii a comprendere, tuttavia, il sorriso dolce di Takemichi non sfuggì al mio sguardo. I due si scambiarono una carezza soffice, gentile, e il mio cuore si restrinse su sé stesso. Bruciò quasi quanto una ferita esposta all'aria, ma lo ignorai.

Istintivamente, la mano mi era scesa sino al ventre, aprendosi sulla parte inferiore, la cui lieve sporgenza era ben celata dal maglione più largo di due taglie. Non riuscivo a capacitarmi di aver preso sei chili in soli tre mesi, ma avevo dovuto ricredermi quando la lancetta della bilancia aveva segnato la verità.

Una verità molto dura da digerire. Forse, era per quello che avevo ancora la nausea. Le nausee non mi lasciavano tregua. Mai, né la notte, né la mattina.

Mi ci ero abituato ormai, consapevole che se non fosse stato per quella condizione, avrei comunque sofferto per l'ansia.

«Seishu?» mi chiamò Takemichi. Il tocco del suo palmo coperto dallo spesso guanto rosso vermiglio, mi riscosse.

Attorno a noi, il paesaggio era bianco. Bianco come se qualcuno avesse steso una coperta gigante sull'erba, i terreni, i tetti delle case. Tutto era ricoperto di neve, soffice e sbriciolata come biscotti al burro. La vetrina davanti a noi pareva quella di un film, con i tavolini rossi tutti perfettamente apparecchiati e le posate tutte brillanti. Mi volsi verso Takemichi e mi pentii di non essere rimasto a casa, sul mio divano morbido, con il fuoco caldo e la tv sintonizzata sul canale dei telefilm. Perché, sul volto del mio amico, non si prospettava nulla di buono.

«Dimmi, Takemichi.» asserii, deglutendo. Lui mantenne quel suo sorrisetto buffo, con gli occhi semichiusi come quelli di un gatto.

«Potresti… ehm… chiudere gli occhi?»

«Cosa?»

Sbarrai lo sguardo, sbattendo agitato le ciglia. Fu allora che intervenne Mikey. Si sovvraposse tra me e Takemichi, che lo osservava incuriosito.

Cruor, KokonuiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora