1. Cruore

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I RAGAZZI IN QUESTA STORIA SONO TUTTI MAGGIORENNI!!

Avevo sempre creduto che Koko fosse l'uomo che più amavo nella vita.

Non c'era nulla sopra di lui, non c'era nessuno il cui sorriso mi facesse morire dentro come faceva lui, quando metteva su quel suo sogghigno buffo. Non esisteva anima che mi infuocasse più dei suoi occhi su di me.
Ero convinto, - quasi religiosamente - di aver consacrato a Koko ogni parte di me, ogni frammento del mio corpo e dell'amore che avevo dentro. Come se quella fosse stata una riserva, un piccolo accumulo di parole e sentimenti, nascosti dentro di me, pronti ad essere afferrati all'occorrenza e cacciati fuori.

Avevo sempre creduto, - fermamente e spudoratamente - che oltre Koko non ci fosse spazio per nessuno.
Perché, Koko Hajime, ne occupava di spazio. Era incastrato nella mia mente in una strana e contorta forma, una specie di incastro geometrico.
E i miei neuroni, ci erano cresciuti sopra, mentre, io crescevo con lui.
Lo stesso valeva per il mio cuore. Avevo finto per troppo tempo che Koko non fosse altro che il mio migliore amico, il mio confidente, il mio capo.

Nessuno mi aveva mai spiegato la differenza tra amore e affetto, ed io, confidavo nell'affetto.

In quel periodo della mia vita, ero convinto che amare il mondo intero fosse sufficiente per rimanere a galla. Mi sbagliavo, e non di poco. C'era qualcosa negli occhi chiari di Koko che mi mandava a fondo ogni volta che mi arrischiavo ad incrociarne lo sguardo. Un po' come una candela, la cui cera cadeva e cadeva, fino a bucarmi il petto.

C'era una parte di me, che sapeva quanto fosse sbagliato provare certe cose.

Me lo ripetevo spesso, infatti.

Specie, quando avevo addosso le mani di Koko, quando lui mi toccava con quelle sue dita affusolate, lisce come panna montata sul mio ventre.
Mi chiedevo spesso che tipo di emozioni suscitassi io, in Koko. Io, col mio corpo piccolo, esile, esposto.
Non somigliavo a quelle belle bamboline che gli sbavavano dietro, ma neppure a quei mostri senza cuore, con i quali, lavorava. Ero nel bel mezzo, un bilico che non riuscivo a superare e mi aggrappavo ai bordi con la stessa forza con la quale, graffiavo le sue spalle, nelle sere gelide di Novembre.

Koko era irruento.
Veloce e pesante, come lo erano i suoi occhi su di me, il suo respiro mentre sudato mi si spingeva dentro e gemeva disperato, fino a farmi perdere il conto delle ore. Mentre, la sua collanina dorata mi ballava sul viso, inclinandosi e finendomi sul mento ad ogni nuova stilettata. Non mi dispiaceva.
Mescolavo l'amore che lui provava per quello che stavamo facendo a quello che io provavo per lui e finivo per sentirmi sazio. Disperato, sofferente, sfinito, ma sazio. Sazio di quello che mi concedeva, di quello che voleva e che mi dava.

Koko non era mai stato bravo a definire quello che eravamo.

Seppure glielo avessi chiesto, lui non avrebbe saputo rispondere. So che avrebbe guardato altrove, magari in direzione della finestra, con la schiena nuda, la sigaretta tra le labbra e il fumo che inondava la stanza come vento colorato. Ero certo che avrebbe scrollato quelle sue spalle ampie e fatto dondolare i ciuffi colorati che erano i suoi capelli, poi si sarebbe voltato e avrebbe detto: «C'è forse bisogno di definirci?».
E avrebbe insistito con quelle sue stronzate liberaliste, con l'indipendenza dei sentimenti, con il maschilismo, che da sempre, era una sua grande pecca.

Non mi avrebbe comunque dato modo di espormi.

Da parte mia, credo che lo facesse per paura. Anch'io ne avevo, certo, ma Koko era sempre stato meno coraggioso di me, nonostante la sua natura. Avevo sempre creduto che fosse qualcosa di innato, quello che eravamo, intendo. Quello che siamo ancora, perché la biologia non si cambia, perché nonostante tutto eravamo e siamo ancora questo.

Magari, l'amore per Koko mi ha reso sciocco. All'epoca lo ero. Sciocco e innamorato del suo riflesso contro i miei occhi, del sapore dei suoi baci alla vaniglia e nicotina, del suo sorriso squadrato, quello dove esponeva i suoi denti bianchi dritti come tasselle di un mosaico e seduceva le persone.
Non mi ero mai reso conto di essere dipendente dalla presenza di Hajime nella mia vita. Forse, era abitudine.
Koko ci era sempre stato, fin dalle elementari, quando non ero altro che un bambino piagnucolone e chiuso ad ogni contatto, sino alle superiori, quando il mio cuore si era aperto e richiuso sul suo. Perché, magari intrappolandolo, sarebbe stato mio per sempre.

Non potevo essere più stupido di così.

Eppure, pensavo di essere nel giusto, eppure credevo mi avrebbe guardato, che mi stesse guardando, davvero.
Più avanti mi sono detto che sebbene me ne faccia una colpa, Koko non capiva e forse ancora non lo fa. Per lui non ci eravamo spinti poi così infondo. Perché il sesso ci faceva bene. Liberava i feromoni, le nostre essenze, le endorfine. E sì, per Koko quelle erano forse le più importanti.
Lui sempre contratto, sempre sull'attenti, teso come una corda di violino, quando faceva sesso con me, si apriva alle emozioni.

Si lasciava trascinare.

Una volta, lo vidi piangere.
Ricordo che mi sarei strappato il cuore dal petto per quanto quella scena mi stava logorando dentro. Ricordo che gli ho preso il volto tra i palmi e l'ho guardato, esponendomi come mai avevo osato fare.

«Perchè piangi?» gli ho chiesto, e ho tremato dentro, perché non ero pronto alla sua risposta. Lui però, mi ha guardato, con quei suoi occhi belli anche se sporchi di pianto e ha mormorato: «Perchè non voglio farti male, Seishu.»

Forse è stato lì che l'ho ammesso; di essere innamorato di lui.

Pazzo, sciocco, insensato, ma innamorato. Sin nel cuore, nelle parti più remote dove il mio sangue affluiva, lo amavo con tutto me stesso.
Più di me stesso.

Hajime era il mio Sole ed io ci fluttuavo attorno, come un pianeta.

Immagino che fossi ancora troppo piccolo per pensare a cosa ci sarebbe stato dopo, a quanto dovessi essere in gamba per colpire Koko nel profondo e impedirgli di lasciarmi andare. Dicono che quando ci si innamora le cose diventano più belle, più facili, ma l'amore tra me e Koko rese solo tutto più triste.
I baci, le carezze, le cosce avvinghiate, tutto era tornato ad essere un circolo vizioso, una ferita. Era solo quando Koko mi toccava con i suoi palmi caldi che tornavo a respirare, solo quando mi sorrideva, che il cuore riprendeva a battere.

Tra di noi, era Inverno. Uno di quelli gelidi e distanti, che colmavamo solo con lunghe e intense sessioni di rotolamenti; sul divano di casa sua, nelle stazioni dei treni, nei bagni delle discoteche. Forse, all'epoca era perfino più sciocco di adesso. Adesso, mentre me ne sto seduto sulla tazza di un cesso sporco di chissà quanti germi, con le mani tremanti, alzate davanti a me e il bastoncino che tengono stretto, proprio sotto i miei occhi.

A chiedermi come sia possibile.

Perché, non solo è la cosa più sbagliata che io abbia mai fatto, ma è anche quella più stupida. Esattamente come lo è il fatto che sia qui dentro, da due ore, senza riuscire a muovere un dito, senza riuscire a smettere di piangere.

E non l'ho realizzato.

Non ho ancora realizzato che aspetto un bambino, e che Koko mi ha lasciato. Proprio lo stesso giorno che l'ho scoperto.

Proprio prima di poter dire che è suo.



🎨




Spazio autrice:

Sicuramente, sarà molto più breve delle mie solite storie. È uscita così di getto, perché mi mancava Inui e (mi costa ammetterlo, mi mancava anche Koko che fa lo stronzo). Non avrei neanche dovuto pubblicarla, era più uno sfogo personale, un libero arbitrio della fantasia, ma mi conosco.
Lasciarla tra le bozze, a marcire, e vederla lì ogni volta, non avrebbe fatto altro che farmi male al cuore.

Perciò, ecco qui.
Spero che vi piaccia, e che possa strapparvi qualche lacrima (chissà se di gioia o no hahah). Alla prossima,

-Lilla

Cruor, KokonuiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora