- Chapter I - Iniezioni

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Che schifo.

Odio il cibo della mensa, piuttosto non mangio, anche se sono già 3 giorni che non tocco cibo e se ne passano altri 2 verranno ad iniettarmelo, quello schifoso cibo. Dopo 8 anni non mi ci sono ancora abituato a questo tipo di pietanze, così molli e insapore, ma non importa. Fra 1 giorno esco da qui. Se solo potessi rimarrei, ma una volta compiuti i 15 anni ci buttano fuori.

Odio questo ospedale psichiatrico.

E anche se lo odio non voglio comunque andarmene, ormai ci sono abituato a stare qui. Ah, giusto, fra poco e l'ora delle iniezioni.

Sono disteso sul letto della mia stanza. Guardo il soffitto come se fosse interessante. La mia camera è interamente bianca, escludendo le ditate di sangue, le mie unghie incastonate nella parete e i tagli sul pavimento fatti da me con delle forchette di plastica che ci forniscono per mangiare. Il soffitto è candido, le lenzuola sono così morbide...
Mentre sono immerso nei miei pensieri sento la porta aprirsi lentamente.
So già chi è.

- Salve Dazai-san -
- Non ti chiedo neanche perché sei qui, piuttosto fa in fretta Mori - dico con tono duro mentre mostro il collo e allungo in braccio.
Si avvicina a me a passi lenti, il suo viso contorto in un espressione inumana, contento del dolore che dovrò patire, della sofferenza e come drogato dalle mie urla. Infila la prima siringa nella vena, poi una seconda sul collo, una terza sull'altro braccio, un'altra...
-Mori, cazzo, non sono un fottuto scolapasta! - urlo, dimenandomi dalla sua ferrea presa.
-Dazai-
Sentendomi chiamare lo guardo negli occhi, precedentemente fissi sul pavimento. Il suo sguardo è languido e severo. Sento il corpo irrigidirsi, mi sale l'ansia alla gola, la testa inizia a girare.
Si avvicina al mio viso con fare inquietante con il bisturi in mano. Non faccio in tempo a vederlo che ho già un taglio abbastanza profondo sulla guancia sinistra.
-Non osare parlarmi in questo modo-
Abbasso istintivamente gli occhi e accenno un 'si' con il capo.
Lo vedo alzarsi dal letto e finalmente il mio corpo, anche se di poco, si distende.
Apro la bocca per salutarlo ma da essa esce un suono strozzato: mi ha appena tirato un calcio nello stomaco.
-Pensi che ti perdoni così facilmente?
E poi devo lasciarti un degno saluto da parte mia...-
La mia gola brucia. Fa male, ma le lacrime non escono. Quando si soffre viene da piangere, quando si sta male viene da piangere, ma io non i riesco più.
Sarebbe bello poterci riuscire.
In questo momento il mio cervello è un pappone unico. Sento i suoi calci, i suoi pugni, i suoi tagli, il sangue che sgorga e percepisco quasi piacere in tutto questo.

Ormai ci sono abituato.

Va tutto bene
-Non va tutto bene-

Di chi è questa voce?

-Devi ribellarti, non puoi continuare così. Perché non reagisci?-

Chi potrebbe mai dirmi delle cose del genere?

-Ti prego, scappa con me-

Ah, si, ora ricordo. Era il mio vecchio vicino di stanza. Non l'ho mai visto, ma ci parlavamo spesso. Cioè, era lui che mi parlava attraverso il muro, io stavo zitto e lo ascoltavo. Non riuscivo a rispondergli, all'epoca ero ancora troppo traumatizzato per riuscire ad emettere suono. Credo che l'unica cosa che gli rispondevo a volte era un:
Ormai ci sono abituato.

Il ragazzo mi parlava spesso del fuori, del giardino dell'ospedale. A quanto pare lui poteva uscire, al contrario di me. Era un bravo ragazzo. C'è stato poco qui dentro. 1 mese al massimo. Avevo 10 anni, lui non so. Credo che mi spiasse dal buco della serratura della porta perché quando mi parlava sembrava che mi conoscesse bene, o che almeno mi avesse visto. Prima di non sentirlo più mi aveva detto di essere stato preso in custodia da una brava famiglia. Aveva una bella voce, era gentile con me, anche se a volte scontroso, ma mi stava simpatico. Credo sia l'unica persona che mi abbia trattato come un essere umano.

Chissà se un giorno lo incontrerò.

I can't live without you - SoukokuDove le storie prendono vita. Scoprilo ora