Capitolo IV

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Una volta che Goffredo terminò di scrivere quest'opera immortale fu veramente al settimo cielo, da andare dai due suoi amici, Rosa e Giustino, con il libro in mano pronto a chiedere loro cosa ne pensassero della storia.

Fu così che egli, a passo veloce e poi lento, lento veloce, corse da loro tanto gioioso per aver creato secondo lui il più grande capolavoro di tutti i tempi, forse una delle storie più coinvolgenti e emozionanti di sempre.

Una volta giunto da loro due, anche loro assolti nella grande sfida che s'erano posti, il buon Goffredo cominciò: — "Giovani e ribelli! Pur avendo trentacinque anni, penso d'aver scritto, finalmente, una storia bella e degna di nota! Alla faccia vostra, guardate!" — esclamò convinto poi serio.

Sia il buon Giustino che la bella Rosa si chiesero come avesse fatto, e lui disse: — "Devo dire grazie alla mia mente e al mio cuore, tutto opera loro!

Facciamo così, io ve la lascio, così la leggete." — disse Alfredo.

— "Noi non sappiamo leggere!" — urlò Rosa. — "Puoi dirci almeno di che parla?"

— "Giusto, dimenticavo." — s'apprestò a dire Goffredo. — "Beh! La storia tratta degli gnomi, delle fate o in generale delle creature magiche." — continuò.

— "Sei pazzo!" — esclamò il buon Giustino. — "Non te l'accetteranno mai un'opera del genere!"

— "E per quale motivo?" — domandò Goffredo.

— "Ero a conoscenza di una storia scritta da un mio vecchio amico, guarda caso si chiama Goffredo come te, che dopo aver scritto un'opera in cui si trattavano pressappoco gli stessi tuoi argomenti, fu condannato a dire il vero non so per quale motivo, forse la Chiesa non accettava che venisse scritta un'opera del genere."

— "Ecco, hai ragione!" — disse il buon Goffredo. — "Potrò senza dubbio essere accusato d'eresia!" — continuò poi. — "Grazie per avermi detto questa cosa, starò più accorto la prossima volta!"

Fu così che riprovò questa volta a scrivere un'altra opera colossale, dal titolo: "Dalla pianura al monte".

DALLA PIANURA AL MONTE - SECONDA STORIA DI GOFFREDO

Incontrai, una volta o due, un vecchio di tanta stima, di cui adesso non ricordo il nome, forse mi verrà in mente nel proseguo della storia che ci apprestiamo a narrare.

Ricordo solo che, un giorno, me ne stavo a bere vino alla bottega del Mastro Bottaio, un grande uomo dalle mille sfumature, quando si precipitò, forse per chiedere qualcosa, un vecchio di cui non sapevo il nome, e non lo ricordo neanche adesso. Era nuovo il tizio, entrò con una giacca pesante che gli copriva il volto da farlo assomigliare a un tipo losco con cui non entrare in tanti affari.

Pur sembrando severo dalle movenze ottuse e bislacche, dall'atteggiamento intrapreso una volta entrato nelle vecchia locanda, questi, dopo aver chiesto un goccio di vino rosso, si mise ben presto a lanciare occhiate di qua e di là, forse per guardarsi un po' intorno, per familiarizzare un po' con il posto.

Ogni tanto capitava che questo mi lanciasse delle occhiate talmente profonde che, al solo pensiero di stargli antipatico, mi tremavano le gambe a più non posso e impallidivo.

Nella mia vita non lo vidi più, almeno per tanto tempo, pressappoco una decina di anni.

Ma lo si vedrà presente, questo è certo, nelle pagine che da qui seguiranno.

La storia iniziò nell'anno 1514, era una giornata soleggiata e si prospettava tale anche per i giorni a venire.

Quei giorni furono molto diversi un po' perché piovve un po' perché era molto freddo né si poteva disponere delle migliori condizioni per prepararsi a un inverno gelido, lungo e noioso.

L'ELOGIO AI MATTIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora