Eri più bella come ipotesi

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Glasgow era piovosa, fredda, rigida. Le contraddizioni delle sue guglie gotiche con i palazzi di design sembravano raccontare le notti insonni di Simone.

Il Ponte dei morti era arrivato come una manna dal cielo. Simone aveva raccolto le sue cose, le aveva striminzite nel borsone della palestra e aveva preso il primo volo per Glasgow.

Mentre guardava fuori dal finestrino l'aereo decollare e Roma farsi sempre più piccola, Simone si illuse che anche i suoi problemi avessero la stessa sorte. Si sentiva un po' patetico, a quasi trent'anni, schiacciato in un sedile di una compagnia aerea low cost per correre dalla sua mamma perché aveva il cuore a pezzi e chili d'amore sotto le occhiaie, come cantava Galeffi nelle sue cuffiette. Simone fece una smorfia e se le tolse. Erano giorni che non riusciva a controllare le lacrime, neanche in classe. Sono raffreddato, ma sarà che con il cambiamento climatico il polline è in giro fino a ottobre?, mi è entrato qualcosa in un occhio. Aveva una scusa diversa per chiunque glielo chiedesse: colleghi, studenti, Manuel.

Patetico, pensò Simone, mentre la città scozzese prendeva forma sotto i suoi occhi.

Floriana stava tutto il giorno in Università, seppellita dai libri nel moderno palazzo della Biblioteca universitaria di Glasgow. Aveva provato a convincere Simone ad andare con lei, ma lui si era rifiutato. Si era ripromesso di mettersi in pari con i compiti da correggere, a casa, sdraiato comodamente sul divano di sua madre, ma non riusciva ad affrontare la pila di fogli che aveva ficcato senza complimenti nel suo borsone.

Floriana non aveva fatto domande quando Simone, con la voce tremante di pianto, le aveva chiesto se poteva stare da lei qualche giorno,  e neanche quando si svegliava il mattino e lo trovava già in cucina, a preparare il caffè – "Ma che caffè di merda c'hanno qui in Scozia, ma'?" e "Non parlare così Simone" e un sorriso mal celato – e nemmeno quando lo sentiva piangere oltre la porta di camera sua. Si limitava a far scivolare un pacchetto di fazzoletti sotto la porta e ad aspettare che i singhiozzi si interrompessero. 

Aveva tentato di riempire quei giorni con la sua cucina – molto pratica – cercando di ricordarsi quali piatti gli piacessero da bambino e di serie tv che passavano la sera in televisione. Ma Simone le chiedeva di lasciarlo solo, o con una scusa – "Ho mal di testa" – o con quegli occhi scuri spalancati che minacciavano di riempirsi di lacrime, come quando da bambino zampettava da lei per dire che Jacopo gli aveva tirato un pugno.

Floriana aspettava solo che fosse suo figlio ad andare da lei. Forse non era il metodo giusto, pensava, mentre sfogliava distratta tomi impolverati e li aggiungeva all'elenco di fonti per la sua monografia, ma non ne conosceva un altro.

Naturalmente, il suo istinto di madre non era morto con Jacopo, anche se temeva che tutti lo pensassero. Sapeva che stava soffrendo. Molto. Come l'ultima volta in cui se lo era ritrovato davanti alla porta di casa, sedici anni e il cuore frantumato. E sapeva che quella volta non era molto diverso. Questo glielo diceva non tanto il suo istinto ma le labbra serrate e gli occhi bassi di Simone. Non lo aveva letto da nessuna parte, solo sul suo stesso viso. Quel modo di chiudersi in se stesso quando qualcosa lo faceva soffrire era tutto di Floriana. 


"Fish and chips!" trillò Floriana entrando in casa.

Simone si allungò sul tavolo del salotto per afferrare i contenitori imbevuti di olio.

"Ma quanto è unto il cibo qua? È troppo, troppo unto!" si lamentò.

Floriana ridacchiò. Era bello sentirlo scherzare.

Simone estrasse il pesce fritto dalla montagna di patatine e allontanò l'aceto dal suo piatto. Si era ben adattata alle usanze scozzesi, pensò Simone, sbirciando sua madre che invece stava inondando le patatine fritte di aceto.

Critica dell'amor praticoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora