L'apprendista

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L'acciaio incandescente bruciò come fuoco liquido, un inferno in miniatura pronto ad essere plasmato. Il giovane elfo afferrò un paio di pinze e con fare esperto spostò l'acciaio dalla forgia all'incudine. Intanto si era armato di martello, un arnese rozzo e solido che in tanti anni di lavoro mai l'aveva tradito. Calò il martello sul metallo, acciaio su acciaio, i muscoli del braccio che guizzavano e si contraevano mentre l'incudine iniziava a cantare la sua melodia stridula e cadenzante.

Quello del fabbro era un lavoro duro e lo aveva reso forte fin dal momento in cui, quando ancora era un bambino, gli era stato messo tra le mani quello stesso martello. Gli anni di apprendistato lo avevano reso più robusto della maggior parte degli elfi, che di norma avevano spalle strette e corpi snelli e affusolati.

Gynliae si fermò solo un momento per asciugarsi la fronte dalle goccioline di sudore che rischiavano di cadergli sugli occhi, per poi riprendere il suo lavoro con ancora più energia. Continuò a colpire con insistenza la sagoma d'acciaio che presto avrebbe preso la forma di una spada lunga da combattimento.

Nella mente del ragazzo l'immagine della lama ultimata emerse chiaramente: un'arma elegante la cui sommità curvava dolcemente in un artiglio di acciaio affilato e letale, la scanalatura decorata di antiche rune propiziatrici e l'elsa che terminava con il pomolo argentato e arricchito da una pietra preziosa.

A commissionarla era stato lord Yidrë, un valoroso comandante che aveva combattuto nella battaglia di Ilirea. La mascella di Gynliae si serrò. La battaglia di Ilirea. Non voleva nemmeno pensarci. Da quella battaglia, così come dal disastro che aveva distrutto Doru Araeba, erano ormai passati dieci anni. Dieci anni da quando l'umano traditore Galbatorix sedeva sul trono di quella che un tempo era Ilirea e che ora si chiamava Urû'baen, dieci anni dalla sconfitta degli alfakyn.

Gynliae ricordò che era proprio dopo la morte della sua amata che il lord era impazzito di rabbia e una furia omicida lo aveva portato a trucidare alcuni dei più fervidi sostenitori di Galbatorix. Yidrë non conservava alcuna memoria dell'avvenimento: i soldati di Evandar lo avevano trovato riverso a terra privo di sensi, circondato come in uno strano rito dai corpi macellati dei suoi nemici.

Il sole era già basso all'orizzonte quando Rhunön tornò alla forgia. Era un'elfa vecchia quanto la Du Weldenvarden: il suo viso era solcato da rughe fitte e profonde quanto quelle della corteccia di un albero, era alta di statura, ma aveva spalle curve simili a quelle di un umano giunto alla fine dei suoi giorni vigorosi. Le mani erano ancora forti, ma raggrinzite e nodose. I capelli dell'elfa erano l'unica parte rimasta intatta della sua antica bellezza: una chioma lunga e argentea, la stessa sfumatura che caratterizzava anche il taglio corto e scarmigliato di Gynliae.

Mentre si avvicinava all'incudine Rhunön si infilò un paio di spessi guanti di cuoio: «Ragazzo, se batti ancora un po' il martello su quella lama, diventerà sottile quanto un fairth».

Gynliae immerse quella che ora era una lama in un secchio d'acqua per poi porla all'elfa. Si scostò in silenzio in attesa del suo giudizio.

Rhunön sollevò la lama all'altezza degli occhi e la analizzò con fare scrupoloso sia di piatto che di taglio. La soppesò e la rigirò mentre Gynliae osservava vigile ogni suo movimento. Rhunön aveva modi bruschi che altri elfi avrebbero sicuramente definito sgarbati, ma ogni abitante di Ellesméra la rispettava profondamente, Gynliae più di ogni altro.

Dopo un'attesa che gli sembrò infinita l'elfa parlò: «Sì, è un po' sottile per i miei gusti, ma credo che a uno come Yidrë piacerà. L'hai temprata bene. Entro venti, venticinque anni al massimo forse potrai dire di forgiare spade buone quanto le mie... Cos'è quella faccia? Pensavi di superarmi in così poco tempo? Hai ancora da imparare molto, ragazzo».

Gynliae aveva inarcato impercettibilmente le sopracciglia, ma Rhunön non era tipo da lasciarsi sfuggire il più minimo dettaglio, sia sulle lame che sui visi delle persone.

L'elfo sorrise: «In realtà, Rhunön, non hai mai parlato così bene di un mio lavoro. È per questo che sono sorpreso».

Negli anni in cui era stato suo apprendista Gynliae aveva forgiato mille spade, daghe, coltelli e stiletti, armature e cotte di maglia, picche e martelli da guerra, ma raramente Rhunön ne era stata soddisfatta. Gynliae era un fabbro tutt'altro che mediocre, ma la sua era un'insegnante severa e quasi impossibile da accontentare. Eppure quella stessa insegnante aveva appena ammesso che in pochi decenni il suo allievo l'avrebbe eguagliata.

«Beh» iniziò Rhunön con il suo solito tono ironico: «prima o poi dovevi pur migliorare».
Gynliae però sapeva che in fondo era fiera di lui.

La mattina seguente Gynliae si svegliò particolarmente presto. Il suo era stato un sonno agitato, ma non ricordò nulla di quanto sognato quella notte. Colto da un'improvvisa inquietudine scese alla forgia con gli occhi ancora pieni di sonno.

Rhunön era già al lavoro. Gynliae si sedette in un angolo del laboratorio e osservò l'elfa con interesse. Si era appena rimboccata le maniche della veste fino ai gomiti e sfiorava la lama che lui aveva forgiato il giorno prima con delicatezza, quasi temesse di spezzarla con il solo tocco delle dita.

Un attimo dopo la sua maestra iniziò a cantare un incantesimo lungo e complesso, un'antica formula che Gynliae non era ancora riuscito a padroneggiare, ma che sapeva essere essenziale per conferire alle lame elfiche l'eccezionale resistenza di cui erano dotate.

Qualche minuto dopo il canto roco di Rhunön si fece più lento e debole, infine le sue parole si confusero con il silenzio. L'elfa brandì la spada ormai ultimata con soddisfazione. L'elsa era semplice e disadorna eccetto che per il pomolo, che Yidrë aveva richiesto di arricchire con una grossa ametista dal taglio ovale.

«Ci pensi tu a consegnarla?» domandò Rhunön.

«Certo»

Gynliae si avvicinò per esaminare il lavoro completo. Era un'arma così bella che fece dimenticare all'elfo che le spade erano, prima di ogni altra cosa, un letale strumento di morte.

«Non potrai trattenerti a lungo, o farai tardi alla commemorazione»

Gynliae annuì, distratto dai riflessi violetti della pietra preziosa.

«So cosa ti passa per la testa» soggiunse Rhunön con un tono indagatore: «verrà il giorno in cui sarai pronto a forgiare una lama tutta tua e temo che quel momento sarà prima di quanto vorrei».

Gynliae non comprese le sue parole. Il Re Nero sedeva stabilmente sul trono di quella che un tempo era Ilirea da ormai dieci anni e da quel momento in avanti la regina Islanzadi si era limitata a nascondere il suo popolo nei meandri più profondi della foresta, innalzando alte barriere magiche per proteggerne i confini.

L'elfo finse un tono disinvolto: «Non c'è nessuna guerra alle porte, Rhunön. Galbatorix ci teme ancora, sono sicuro che ci lascerà in pace»

Gli occhi di Rhunön si infiammarono di antica rabbia mentre gli puntava un dito nodoso al petto: «Il Traditore si è preso tutto. Tutto! Prima o poi verrà a reclamare anche la nostra foresta. Ma prima che ciò accada tenteremo qualcosa».

Gynliae indietreggiò istintivamente, ma notò che nell'espressione della vecchia elfa c'era anche qualcosa di diverso. Speranza? O semplice ostinazione? Gynliae non sapeva dirlo.

«Tenteremo qualcosa» ripetè lei, più a se stessa che al giovane elfo.

Rhunön afferrò una cotta di maglia e un paio di tenaglie e tornò alle sue faccende. Gynliae capì che non era il caso di insistere. L'elfa covava un risentimento così profondo nei confronti del Re Nero che a volte era meglio lasciarle il tempo di rabbonirsi con qualche sana ora di duro lavoro.

Così, Gynliae ripose la spada nell'elegante fodero di cuoio che aveva realizzato appositamente per il lord e uscì di casa, desideroso di respirare un po' di aria fresca.

NdA: ecco Gynliae dopo il timeskip!
A presto!

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