Mi è nei fatti ignota la ragione per cui quella dei corsi e ricorsi storici, tra tutte le teorie di filosofia della storia, abbia riscontrato - e forse ancor di più riscontri oggi - un successo così straordinario, specie se lo si compara alla moderata popolarità di altre tesi di filosofi illustri in ugual maniera - se non di più - di colui che ha formulato questa qui. Mi è inoltre nei fatti ignota la ragione per cui una tesi che è manifestamente dibattibile, se non addirittura infondata, non venga ritenuta più errata o arbitraria delle altre tesi altrettanto smentibili o smentite. Per quanto ne so non esistono testi che abbiano apposto la parola fine su questa spiacevole storia e, se esistono, non hanno conseguito la notorietà di cui sarebbero meritevoli. Sarebbe perciò un mio grande onore, con questo breve pamphlet, scrivere l'epitaffio di una teoria che, per svariate ragioni, ad oggi dovrebbe essere sepolta.La prima gran problematica sta nel fatto che in realtà lo scorrere del tempo ha prodotto un'incongruenza tra ciò che era stato teorizzato in origine dall'insigne Giambattista Vico, principale antagonista dell'odierna dissertazione, e la maniera in cui oggi sono comunemente intesi i corsi e ricorsi storici. Questa strana incongruenza, che non ho tuttavia difficoltà a spiegarmi, ha fatto sì che la teoria originariamente formulata da Vico fosse deprivata dei tratti metafisici, in un certo senso rendendola assai più fruibile, ma anche più infondata, sicché non è poi così diversa da una qualsiasi forma di fede - problema nel quale tende a ricadere qualsiasi teoria che faccia derivare la sua validità da Dio.
Ad ogni modo, prima di affrontare la maniera in cui si intendono comunemente oggi i corsi e ricorsi storici, vale pure la pena fare un breve excursus sulle problematiche che ho riscontrato nella teoria vichiana, e che ne minano la fondatezza. Ironicamente, a causarle problemi è lo stesso fattore la cui assenza rende insensata la teoria ai giorni nostri: la metafisica. Pur essendo un estimatore della filosofia della storia e ritenendola assai buffa e spassosa, essa ha, per mia sfortuna, lo spiacevole e brutto vizio di portare avanti tesi senza troppo curarsi di allegare a queste fascinose proposte delle prove, e la cosa è assai disdicevole perché ciò che ne esce sono, in molti casi, delle grandi e traballanti architetture che poggiano le loro fondamenta sostanzialmente sul niente. La ragione di ciò va ricondotta nientemeno che alla metafisica, la quale, senza troppe preoccupazioni, ha spesse volte la pretesa di stabilire un fattore che colleghi e categorizzi i vari periodi della storia. Ancora, queste teorie sono accompagnate alternativamente da due cose: o delle sofisticate quanto cavillose argomentazioni, o dall'appello alla divinità; entrambi, tuttavia, assenti di prove. E la questione è purtroppo spinosa, perché la storia è una scienza concreta, si occupa del certo - nei limiti della dimostrabilità -, non del possibile, o, per meglio dire, si occupa di verificare che il possibile sia certo, oppure che non lo sia; se non può farlo, lo ammette, e desiste, oppure, sancito di non poter sormontare ogni ragionevole dubbio, teorizza senza pretesa di scientificità. Il buon Vico, che è il pioniere della teoria di cui parlo - una delle meno strampalate, a dir la verità -, sostiene che vi siano due flussi storici: una storia ideale eterna che, come intuibile, è acronica, a forma di modello per l'uomo e, ovviamente, di natura teologica; e una particolare, che è, nel concreto, l'azione dell'umanità in ordini di grandezza di persona, comunità o nazione. Vico, dall'alto del suo ottimismo, afferma inoltre che la storia cronologica umana tende verso quella ideale, ma che lo faccia in maniera libera, sebbene ordinata. Mi rendo conto che questa sintesi possa essere passibile di critiche di semplificazione, ma il succo è quello, e presenta delle discrepanze che rendono infattibile la teoria vichiana dei corsi e ricorsi storici - che risulta compromessa dalle stesse premesse della sua teoria filosofico-storica: in primis, se l'uomo si adegua al disegno divino, del quale è stato messo al corrente con la sua presa di coscienza, non è libero - pur nel suo essere uno spassionato consiglio - poiché condizionato; se, al contrario, non si adegua, c'è poco da affermare che la storia proceda verso il disegno di Dio. Secondariamente, se alcuni si adeguano al disegno divino e altri no - cosa che Vico ammette -, la situazione risulta piuttosto confusionaria e caotica, e ciò - dovrebbe esser evidente - risulta smodatamente lontano dal concetto di "ordine".
Chiarita la scorrettezza di quanto formulato da Vico - che ritengo esser comunque più degno di considerazione della sua forma degenerata - come ha fatto questa teoria ad aver vita così lunga? E la risposta, tanto semplice quanto deludente, è che semplicemente è stata cambiata e, a oggi, mi pare si creda che la storia si ripeta, secondo quanto afferma la teoria, semplicemente perché così stanno le cose. Mi spiego meglio. A questa inversione di rotta ha ben contribuito la tendenza moderna a curarsi molto dell'aspetto e poco del significato, sicché frasi molto famose, come una smisuratamente citata di Santayana, sono prese belle intonse, estrapolate dal contesto, e rivisitate in chiave più popolare e ad appannaggio di tutti. Col risultato, in aggiunta, che il significato, anziché conservarlo, o ancora, acquisirlo, lo perdono. La moderna teoria dei corsi e ricorsi storici, spero possiate confermare quanto sto per esporre, consiste nella credenza che la storia sia destinata a ripetersi in un moto che è, in buona sostanza, anaciclico. Il che, per i più informati, è alla base del discorso sul ricambio delle costituzioni di Polibio. Se ha senso che un greco sostenesse una teoria del genere, non solo per la grande influenza esercitata dalle filosofie coeve, ma anche e soprattutto per la mancanza di documentazioni che gli dessero prontamente il benservito, ha al contrario ben poco senso che una baggianata del genere stia ancora in piedi oggi.
In primo luogo perché una teoria del genere, come ho già detto, per reggere minimamente dovrebbe quantomeno appellarsi ad argomenti metafisici, perché in caso contrario non si spiegherebbe il predicare con convinzione il ripetersi di una storia uguale a se stessa; in altre parole, vi sono ben poche possibilità che un qualcosa si ripeta in maniera esattamente congruente se non vi è una forza superiore a ingiungere che vada così, o se non vi è la precisa volontà del qualcuno che in prima sede ha compiuto una suddetta azione - e questa possibilità è già un tantino più improbabile - che essa si ripeta in maniera corrispondente. L'argomentazione è ridotta a un colabrodo - e non stupisce - nel momento in cui la presente teoria ha l'ardire di prestarsi come universalmente valida.
La soluzione a questo tedioso incidente di percorso è spostare la validità dell'argomento non sull'ambito metafisico, ma su quello antropologico, o quello sociologico. Vale a dire: l'uomo è sempre uguale - di solito da intendersi in maniera pessimista - e quindi la storia si ripete; siccome le società e gli Stati sono conservati e portati avanti dagli uomini, allora nemmeno essi cambiano veramente e, anzi, sono costretti a ripetersi. Questo è, tra l'altro e in poche parole, ciò che sostiene Polibio disquisendo delle varie costituzioni.
Vi sono due pressanti problematiche che sono però la spina nel fianco di questa affascinante teoria: non solo in taluni casi è la storia medesima a dimostrare che essa non è sempre uguale a se stessa, come potrebbe valere per la nascita di nuovi ordinamenti politici - exempli gratia il comunismo e i vari regimi novecenteschi, con tutti i difetti del caso; ma il difetto maggiore sta nel supporre che l'uomo sia vittima della storia perché non cambia mai veramente. Io ritengo che la fiducia nei corsi e ricorsi storici risieda nella fallace credenza - perché non saprei in che altro modo definirla - che l'uomo sia in balia della storia e non sia invece quest'ultimo a produrla a crearla. È, secondo la mia modesta opinione, che ciò non sia possibile per una semplice ragione: la storia è un qualcosa di puramente umano e, senza di esso, non vi sarebbe storia da creare; è un semplice ragionamento sillogistico che acclara l'irragionevolezza di tale credenza: l'uomo non può essere in balia della storia, perché l'uomo è la storia e, essendo tale, ne è anche artefice. Premesso ciò sono disposto ad ammettere che possano occorrere determinate somiglianze tra certi eventi storici, ma questo significa ben poco, anzi, direi che è un'ovvietà: noi siamo il prodotto e il risultato del nostro passato. Ne siamo istruiti e influenzati, e sarebbe impossibile opporsi a una tale realtà di fatto, ma ciò non prova una realtà socio-antropologica dei ricorsi storici, che potrebbe reggersi solo sulla supposizione che l'uomo non cambi mai, e non cambi mai il suo percepire. Questo, per farla breve, è oltremodo sbagliato. Le realtà sociologiche cambiano, questo è evidente, o noi vivremmo ancora nell'età della pietra e, con esse, cambiano i modi di rapportarsi e, quindi, di sentire. Apprendiamo dal passato e impariamo dai nostri errori oppure, non ritenendoli tali, ci muoviamo per analogia a essi, ma consci di dover agire diversamente dal passato per non inciampare sul medesimo gradino. Un uomo del presente non prova sentimenti come uno di duecento anni fa, basti per esempio pensare a come fosse e sia percepita l'omosessualità ai tempi e oggi: allora con repulsione e vergogna, oggi con orgoglio. La realtà sociologica ci forma e ci influenza, ma questo non significa che ne siamo vittima e succubi, perché è formata da noi durante lunghi periodi di transizione: ogni realtà sociologica presenta tratti della precedente, e questa è la ragione per cui alcune situazioni tendono a ripresentarsi come simili, ma non certo per ragioni di natura superiore come i corsi e ricorsi storici; ogni periodo è transitorio perché la storia in sé è transizione, e non immobilismo.
La verità, io credo, miei cari lettori, è che quella dei corsi e ricorsi storici è una protezione per noi stessi. L'idea che non sia in nostro potere quello che si verifica perché la storia, della quale siamo solo personaggi su un palcoscenico, è già scritta, ci tiene la coscienza candida e la mente sgombra e ci raccoglie sotto una frase comune: "Che posso farci?". Ma la verità, io credo, miei cari lettori, è un'altra; ed è che è giunto il momento di prendere in mano le nostre responsabilità e cessare di credere alle chimere, perché quando un singolo bombardiere volteggerà sulla nostra testa, allora, a quel punto, non ci sarà più nessuno da incolpare.
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Analisi, pensieri e recensioni
No FicciónOra, in un qualche modo nuovo, il cielo sembrava quasi alieno- Lyndon Johnson. Quale modo migliore di dare sfogo alla mia immaginazione se non una raccolta che racchiude tutti i miei pensieri, le mie opinioni e il mio giudizio su letteratura, attual...