capitolo quattro

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Credo che lo stare bene inizi per tutti prima o poi. 
Credo che alcuni siano i privilegiati della vita.
La vita di altre persone, come ad esempio la mia, e invece una vita fatta di sole sofferenze.

-Domani inizierai le lezioni. Mi sono permessa di iscriverti agli stessi corsi della mia Vic, spero che per te non sia un problema-
Jeremiah non sembra stupito dall'affermazione di mia madre e cordialmente la ringrazia.

Mia madre va in cucina a prendere un coltello per tagliare il pane e l'australiano coglie l'attimo per sussurrarmi all'orecchio.

-Perché non mangi principessa?-
Principessa?
Io?

Non so se essere più stupita per il nomignolo che mi ha dato o per il fatto che si sia accorto del mio rapporto con il cibo.

Lo guardo negli occhi ma senza aver il tempo di rispondere.

-Di nuovo a digiuno? Che figura mi fai fare davanti al nostro ospite? Non ti vergogni, io cucino e mi occupo di te e  il tuo modo di ricompensarmi e quello di non mangiare- 
dice seccata mia madre.

Divento rossa dall'imbarazzo e dopo essermi scusata velocemente salgo le scale improvvisando una corsetta frenetica.

Vado in bagno e chiudo la porta. Poggio le mani sul lavandino e mi guardo allo specchio mentre lacrime amare iniziano a solcare il mio viso.

Perché io? Perché non ho una bella famiglia, dei genitori amorevoli e la serenità che ogni adolescente dovrebbe poter avere?

Apro il cassetto più in basso, sposto degli stracci inutilizzati e trovo ciò che cercavo.

Il suo metallo è freddo e il lato destro affilato. Sposto il mio bracciale a fascia e poggio la lametta sul polso. Faccio una leggera pressione fino a quando il sangue non inizia a sgorgare.

Il male fisico mi permette di riposarmi dal male che porto dentro.

Sento passi su per le scale.
Non sono i passi di mia madre, gli avrei senz'altro riconosciuti.

Prendo uno straccio dal cassetto tolgo le gocce di sangue dal pavimento e ripongo tutto nel cassetto.

Apro il getto d'acqua e mi sciacquo il braccio che però brucia terribilmente.

Abbasso il bracciale sulla ferita e dopo aver asciugato le lacrime esco dal bagno.

-Hey mi spiace per prima a tavola.. non volevo metterti in imbarazzo-

Continuo a camminare diretta nella mia stanza.
Quando qualcuno mi si pone gentilmente subito dopo che qualcun'altro mi ha fatto stare male mi fa scoppiare in lacrime.

Il motivo?
Inizio a realizzare che ci sono persone buone e cattive e che quelle di cui sono circondata sono per la maggiorparte da persone della seconda categoria.

L'australiano mi si avvicina tenendo il mio passo.

-Non piangere ti prego, non serve a nulla-

-Cosa ne sai te? Pensi di conoscermi? Di capirmi? Non sai nulla di me e non permetterti di dirmi cosa devo o non devo fare!- Urlo d'un tratto.

Sò di essere stata aggressiva ma non mi importa. Non è il momento giusto per sentirmi dire consigli da un perfetto sconosciuto.

Entro in camera e sbatto la porta mentre mi siedo sulla sedia alla scrivania.

Non riesco a respirare. Mi manca l'aria. Mi sta venendo un attacco di panico, cazzo.

I miei respiri diventano veloci e brevi mentre i miei battiti aumentano a dismisura.
La testa inizia a girare e tutto sembra un sogno.

Mi siedo sul letto mentre temo per la mia vita. Ogni volta che mi viene un attacco di panico credo di non riuscire a tornare a respirare.

Sento l'australiano bussare alla mia porta.
-Tutto okay? Ci sei? Non volevo infastidirti-

Non rispondo e cerco di respirare annaspando respiri incompleti.

Cazzo, è entrato nella stanza.

Mi si avvicina delicatamente e mi prende una mano poggiandosela al cuore.

-Senti il mio battito e senti il mio respiro. Ora fai corrispondere il tuo al mio. Piano piano, respira... E inspira-
mi prende la mano e mi aiuta a respirare.

Inaspettato.

Piano piano torno al mondo. Realizzo cosa è appena successo. Mi guardo intorno.

Luì è lì affianco a me. Un perfetto sconosciuto.

Ma quello sconosciuto c'era mente tua mamma no.

-Se hai bisogno mi trovi nella mia stanza, va bene?-
Lo guardo in silenzio senza rispondere, porgendogli un misero cenno del capo.
È gentile ma non è nessuno per me. Chissà che idea si è fatto di me.
Una bambina piagnucolona.

Se solo tutti sapessero il male che mi porto dentro che lentamente mi divora ogni giorno, come una tortura estenuante.

Si può scappare da tutto, ma non da noi stessi.

Questa è la frase che dissi a mio padre il giorno in cui se ne andò. Lui non fuggiva da me, non fuggiva dalla mamma e non fuggiva per un nuovo amore. Fuggiva da se stesso e dalle sue responsabilità.

Mi muovo automaticamente. Apro la porta della mia stanza. Cammino meccanicamente verso la stanza dell'australiano. Busso due volte.
La porta si apre.
Mi guarda. Lo guardo.

Gli occhi non mentono. È preoccupato.

Mi sento ancora sconnessa da ciò che mi circonda, come in una bolla, in una cupola ermetica. Nulla entra e nulla esce.

Apatia.

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