Capitolo dieci

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Sento la leggera brezza mattutina accarezzarmi il volto. Un raggio di sole mi scalda il viso accecandomi per qualche istante.
D'un tratto scosto le coperte di dosso e faccio un respiro profondo aspirando più aria possibile, per poi trattenerla nei polmoni come un tesoro prezioso e lasciarla uscire successivamente dalla bocca con un sonoro sospiro.
Dò un'occhiata alla poltrona e noto un po' delusa che Jeremiah non è più nella stanza.

Non mi sarei aspettata restasse ma speravo lo facesse.

Mi dirigo ciondolante in bagno e mi dò una sciacquata al viso.
Guardo il mio riflesso allo specchio e noto che il gonfiore alla guancia è sparito quasi del tutto.
Faccio per prendere l'asciugamano ma sbadatamente lo faccio cadere a terra. In quel momento noto uno scintillio sulle piastrelle del pavimento e mi ricordo del bracciale.
Nel prenderlo una strana senzazione, tutt'altro che piacevole, mi assale. Molto probabilmente è solo il ricordo della sera precedente.

Lo raccolgo e inizio ad osservarlo meglio. Alla luce del sole è tutt'altro spettacolo.
Lo indosso. È bellissimo, forse nemmeno me lo merito un regalo del genere.

Mentre mi dirigo in camera mia per cambiarmi noto la porta della camera di Jack socchiusa. Cerco di sentire o vedere qualcosa. Da ieri sera non ho nessuna sua notizia, non so nemmeno se è tornato a casa.

In un momento rapidissimo però, la porta si apre e uno sguardo di ghiaccio si posa su di me.
-Cosa fai davanti alla mia stanza?- mi dice con un distacco disarmante.
-Controllavo se c'eri-
-Perchè?-
-Volevo sapere se eri tornato- non provo nemmeno più a nascondere la verità. Non servirebbe a nulla.
-Non dovevi lasciarmi andare-
No, questo non glielo concedo. Come può anche solo pensarlo?
-Sono anni che ti rincorro- dico con voce spezzata da un pianto imminente. Ho sempre pianto per sfogare la rabbia, è il punto debole.
-Vic- mi blocca tra sé e la parete mettendo le sue braccia a mo' di muro, separandomi dalla libertà.
-Fammi capire meglio- dice avvicinando il suo viso al mio.
-Jack...- dico in un sussurro cercando di scansarlo.
-Quindi stai dicendo che non mi vuoi più?-
Abbasso lo sguardo ma mi prende il mento e mi costringe a guardarlo.
-No Jack... Ti prego- dico con un filo di voce, per poi allontanarmi e chiudermi in camera mia, togliendo con la mano la scia salata lasciata dalla lacrima lungo la mia guancia.

Dopo essermi cambiata prendo lo zaino semivuoto e scendo al piano inferiore dove trovo mia madre, Jack e Jeremiah a tavola mentre terminano la colazione.

Gli occhi di tutti sono puntati su di me, che nel tentativo di non incrociare nessuno sguardo indesiderato abbasso la testa.

A rompere il ghiaccio è mia madre.
-Si può sapere perché ieri notte urlavi? Ti pare il modo di
comportarsi?-

Certo che per dire certe cose potrebbe stare in silenzio. La scena muta è altamente sottovalutata.

-Non lo ricordo, forse un incubo-
Mentre cerco di fingere indifferenza una breccia di rabbia attraversa la mia mente. Non mi controllo e continuo.

-Dimmi un po' mamma, se mi hai sentita gridare per quale ragione hai preferito restare impassibile e non venire a controllare se stessi bene?-

Lei non mi risponde e come al solito l'unico feedback che ricevo è uno straziante silenzio punitivo.
Sin da quando sono bambina per punirmi mi ignora, comportandosi come se non esistessi nemmeno.

Io posso urlare, posso piangere, posso dirle le peggio cose, ma per lei in certi momenti sarò sempre e solo un fantasma; invisibile.

-E se avessi avuto bisogno? Eh mamma? E se ci fossero stati dei ladri in casa?-
-Ci sono due ragazzi in questa casa, non ti saresti mai trovata sola a difenderti- Dice di ghiaccio,  interrompendomi.
-E se invece avessi urlato per colpa loro? E se mi avessero fatto qualcosa di male? Come fai a essere così tranquilla?!-

𝑨𝒑𝒂𝒕𝒊𝒂Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora