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Mentre mi faccio strada tra le colonne imponenti del tribunale, ogni passo risuona come un'eco nelle mie orecchie, le mani tremanti strette sulla cartella dei documenti. L'ingresso è un vortice di suoni: il ticchettio delle scarpe contro il pavimento di marmo, il brusio sommesso delle conversazioni spezzate, tutto sembra un mondo alieno, popolato da avvocati sicuri di sé e giudici severi. Io, invece, mi sento come un'intrusa, obbligata a recitare in una pièce di cui non conosco né la trama né il finale.

Le scale sembrano infinite, ogni gradino un ostacolo che mi avvicina sempre di più all'inevitabile. Il mio cuore batte forte, come se volesse sfuggire dalla gabbia del mio petto. È un ritmo incalzante, incessante, che mi risuona nelle orecchie come un tamburo di guerra, annunciando la mia sconfitta imminente. Mi sento come se stessi per partecipare a un funerale – il mio – vestita di nero dalla testa ai piedi, avvolta in un senso di perdita che minaccia di inghiottirmi. Le lacrime premono contro le palpebre, ma non posso permettermi di cedere; devo apparire composta, distaccata, anche se dentro di me tutto si sgretola.

Ogni sguardo che incrocio sembra pesante di giudizio, come se tutti sapessero chi sono e cosa mi tormenta. Percepisco il loro sussurro mentale, quel muto interrogarsi su di me, su cosa sto facendo qui, come se avessero un qualche diritto sulla mia vita. Vorrei urlare, fuggire lontano, ma sono prigioniera di questo luogo e delle mie stesse paure. Fingere che tutto abbia un senso è un'agonia; è come indossare una maschera che si incrina a ogni respiro.

Le décolleté, scelte con cura per apparire professionale, sono una tortura. Seduta alla scrivania, ogni fibra del mio essere grida disagio, dai piedi stanchi fino alle spalle contratte. Vorrei tanto toglierle, liberarmi almeno di quel piccolo tormento, ma non posso farlo, non con mio padre seduto accanto, intento a esaminare i documenti dell'udienza. L'aula è fredda, impersonale, e sembra amplificare il mio senso di inadeguatezza. Le pareti grigie e le sedie rigide sono tutto ciò che c'è tra me e il vuoto.

«Lana, hai studiato il caso?» La voce di mio padre è un richiamo alla realtà, carica di aspettative. Annuisco e balbetto un «Sì, pa...» ma correggo in fretta, «Sì, avvocato Parisi». Lui mi fissa, e per un istante il suo sguardo è così penetrante che mi sembra di non poter più mentire. La verità, però, è che non ho letto nulla. Ogni volta che tentavo di concentrarmi, l'ansia mi bloccava, serrandomi il petto in una morsa invisibile. Come potevo farlo, quando non riesco a controllare neppure me stessa?

Il rumore della porta che si apre alle nostre spalle mi strappa dai miei pensieri. Un ragazzo alto entra nell'aula, con una mascella decisa e orecchie sporgenti che gli conferiscono un'aria vagamente sproporzionata, ma non per questo meno affascinante. Avanza con passo felpato, ogni movimento studiato, quasi teatrale. I suoi capelli castano chiaro sono corti, la camicia nera aderente mette in evidenza un fisico scolpito. Mi accorgo di avere la bocca aperta solo quando percepisco la gola secca.

Il ragazzo si ferma tra me e mio padre, e un odore di liquirizia mi riempie le narici, facendomi storcere il naso. Dev'essere il nostro cliente. Dalla scheda che ho davanti, leggo che ha solo ventidue anni. Lui allunga la mano verso mio padre con decisione.

«Avvocato», la sua voce è profonda, vibrante. Mi ricorda il suono basso e caldo di un violoncello.

«Samuel, questa è mia figlia Lana, studentessa in giurisprudenza. Oggi mi affiancherà in quest'ultima udienza.» Mio padre lo dice con l'autorità di chi è abituato a comandare, a orchestrare ogni dettaglio.

Samuel mi sorride, ma è un sorriso contenuto, quasi studiato, mentre mi saluta con un leggero inchino del capo. «Studentessa,» mormora con quella voce che sembra in grado di attraversare muri. I suoi occhi verdi catturano i miei per un istante che sembra dilatarsi nel tempo. Distolgo lo sguardo, per poi fissare con insistenza il legno rigato della scrivania.

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