Capitolo 4 - la panchina non è una sedia

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Ho sempre trovato il Sabato un giorno inutile.

Lavoravo solo la mattina, certo, però una volta uscita di lì le ore di sole erano circa cinque.
Non che fossero poche, ma dovevo contare il tempo di rientro a casa e le eventuali commissioni da fare, "il frigo non si riempie da solo" e tutte quelle cose che dicono gli adulti insomma.

Avevo fatto il mio quella mattina e mi ero organizzata con Cécile e Zoe per vederci la sera, dopo cena.
Ormai erano più curiose di me su tutta la questione di Teo, le supposizioni erano molteplici anche perché nessuna di noi aveva mai visto o sentito parlare della madre di Odette.
Era veramente importante? Forse no, ma il bisogno di taglia e cuci nel nostro gruppo era abbastanza elevato, era tanto che non succedeva nulla, da rendere necessario trovare delle risposte a quelle domande, chiaramente con rispetto e discrezione.
Io in realtà più che di Teo ero curiosa di sapere chi fosse il ragazzo che qualche giorno prima mi aveva rubato la panchina. Certo io l'avevo già abbandonata, ma era il pensiero in sé e la sua impertinenza ad aver acceso la curiosità.
Onestamente non avevo avuto modo e motivo di tornare in quel posto in quei giorni e non ero neanche sicura lo frequentasse abitualmente anche perché almeno una volta in questi mesi l'avrei dovuto incontrare, no?

<Renée? Ehi? Mi senti?> sentii risvegliandomi dalla trance dei miei pensieri, sobbalzando appena quando vidi una mano, che riconobbi essere quella di Mary, sventolare davanti al mio viso velocemente.
<Si si, sono qui, dimmi> risposi, girandomi per guardarla in viso
<Eh, avrei bisogno che tu esca dal magazzino tesoro, dovrei chiudere, a meno che tu non voglia passare qua la domenica con le piantine> incrociò le braccia sbilanciandosi da un lato e picchiettando ripetutamente con la punta del piede sul pavimento.
<Ricevuto, provvedo> risi, prendendo le mie cose per poi uscire dal negozio.
L'aria fresca di quei giorni mi avvolse dolcemente, non era un forte vento, giusto quel che basta per sentire il rumore delle foglie e muovere i ciuffi della mia frangia.
Ormai avevo deciso, la prossima tappa sarebbe stata la panchina.

Dopo aver camminato una decina di minuti cominciavo ad intravedere l'angolo, privo però di qualsiasi forma di vita umana, decisamente lui non era lì.
Era ovvio in realtà, perché sarebbe dovuto essere lì proprio in quel momento? Dopotutto non mi stava certo cercando e probabilmente si era anche dimenticato di me, una sconosciuta con cui aveva parlato per una manciata di secondi.

Decisi comunque di rimanere lì per un po', alla fine il tempo era bello e lì si stava bene.
Posai la borsa sulla panchina e mi sedetti lì di fianco nel prato, non volevo che si sporcasse, ma preferivo sentire l'erba sotto di me piuttosto che il legno umido e scomodo, tanto dopo non sarei dovuta andare da nessuna parte.
Tirai fuori il quadernino verde su cui disegnavo, ma ultimante proprio non riuscivo, mancavano l'ispirazione e la voglia. Ogni tanto lo prendevo in mano, nell'altra tenevo la matita e continuavo a fissare la pagina bianca nella speranza che casualmente qualcosa cominciasse a comparire sulla carta, come per magia.
Mi mancava l'emozione, in realtà. In questo momento la mia vita era felice, ma priva di qualsiasi tipo di infatuazione. Non parlo di amore necessariamente, parlo di tutto ciò che ti chiede di essere scoperto. Ci sono delle cose, delle persone che urlano "conoscimi, esplorami" ed era esattamente ciò che da tanto mi mancava: qualcosa che mi urlasse nelle orecchie di riaccendere la mia curiosità per davvero.
La bimba aveva smosso il mio animo e mi aveva ricordato com'è vedere le cose con gli occhi di un bambino, ma ormai sono un adulto ed in qualche modo non mi basta più.
Bisogna sempre cercare qualcosa di nuovo, come se non fosse mai abbastanza, come se il buco nel mio stomaco non si saziasse mai di informazioni, emozioni, vita.
Eppure poi c'erano quei momenti di buio e smetteva di importarmi di qualsiasi cosa intorno a me perché in qualche modo quello a cui mi interessavo finiva sempre per ferirmi, crudele.
Un piccolo diavolo tentatore, io lo bramavo e lui mi feriva.
Mi accorsi di star virando i pensieri su una persona in particolare, forse era meglio smettere e cambiare argomento.
Sorrisi appena perché continuavo a trattare le mie riflessioni come una conversazione "ah si signora testa, sarebbe meglio cambiare argomento" come se non fossi io a gestirli.
Era passata già quasi mezz'ora e sul foglio vigeva ancora il bianco, niente tratti di matita o carboncino, solo il colore accecante della carta.
Nulla, era inutile rimanere lì a ciondolare senza un vero motivo, o almeno uno valido, decisi quindi di passare a fare quella poca spesa che mi serviva per sostentarmi,: gli spinaci e poi qualche succo, un po' di pasta nel caso impazzissi e mi andasse, del riso e basta perché di frutta avevo ancora quella che mi aveva portato Mary.
Casa sua era bellissima, aveva un terreno con tantissimi alberi da frutto, l'orto e un piccolo posto con le panchine ed il gazebo, ero andata a trovarla diverse volte e lei insisteva sempre per farci fare il giro del frutteto ed effettivamente aveva ragione, era sempre bellissimo.

Una volta finito tutto decisi di tornare a casa, erano quasi le sei e dovevo ancora preparare la cena e cambiarmi per uscire con le ragazze, non che ci fosse bisogno di eccessivi preparativi, una gonnellina ed una giacchettina sopra la maglia sarebbero andate benissimo però non volevo tardare troppo.
Arrivai davanti al portone, ripetei meccanica la stessa operazione di sempre ed entrai, feci le scale, altra porta e finalmente a casa.
Avevo lasciato quasi tutto in disordine, i vestiti da piegare erano poggiati confusi sul piccolissimo divano rossastro del soggiorno che fungeva anche da sala pranzo e cucina nella quale sostavano ancora annoiati i piatti sporchi della sera prima.
Decisamente uno schifo e ho risparmiato nel resoconto la camera da letto nella quale invece c'erano appoggiati in ogni dove i vestiti sporchi.
Mi tirai su le maniche e sbuffai per poi poggiare le chiavi nel piccolo gancio sulla parete dell'ingresso e mi diedi da fare, fortunatamente per le sette avevo finito ed ogni cosa era più o meno al suo posto.
Nel marasma avevo scoperto di aver perso un calzino ed ora vivrà solo e spaiato...chissà come si può perdere una calza.
Mi misi finalmente a cucinare, se così si può definire "inserire nel microonde un piatto con della frittata avanzata", e mi sedetti per terra di fronte alla televisione.
Non ero mai stata tipa da tv, mi annoiava e non trovavo mai nulla che mi interessasse però la avevo perché tutti ne possedevano una in casa e poi mia madre aveva detto "Renée poi come fai a sapere cosa succede nel mondo?" era chiaro si riferisse al telegiornale, ma per quello esiste il telefono che ormai è anche molto più aggiornato.
Continuai per una quantità indefinita di tempo ad andare avanti e indietro nei canali cercando appiglio in qualcosa, ma nulla.
Una volta girati più o meno tutti ed aver guardato tre minuti di televendite di materassi, dieci di una serie tv spagnola discutibile e almeno 20 di un documentario sul granchio del cocco decisi che avevo provato abbastanza a fare la parte della persona normale e potevo andare a a vestirmi.
Alla fine dopo un'attenta analisi del tempo atmosferico optai per dei pantaloncini con sotto le calze velate nere ed un maglioncino verdino con dei fiorellini gialli ricamati alla fine delle maniche.
Andai allo specchio e squadrai il mio viso ed il mio volto sfatto mi fece quasi rabbrividire così mi rassegnai all'idea di mettere un po' di correttore, dell'eyeliner e del mascara per sembrare leggermente più viva ed entusiasta di stare allo stesso bar sedute per almeno quattro ore perché da lì passa "Antoine" il ragazzo dei sogni di Cécile al quale va dietro da mesi, anni e decenni, senza esagerare.

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