Capitolo II

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Mi ritrovo sott'acqua all'improvviso, senza aver avuto la possibilità di prendere prima un bel respiro. Annaspo, la gola e i polmoni che mi bruciano in carenza di ossigeno. Sono così spaventata che ho gli occhi aperti, anche se la luce che riesce a penetrare la distesa d'acqua scura è così flebile che intorno a me riesco a distinguere poco e niente.

D'istinto continuo a slanciarmi verso la superficie, invano. Quella che di certo è una mano, mi trattiene dalla caviglia e, pur scalciando e agitandomi come una forsennata, non riesco a liberarmene. Guardo in basso, ignorando il terrore di scoprire chi abiti il fondale di quel lago ora mostruoso e inquietante: i miei occhi - continuo a sforzarmi di tenerli aperti - incontrano la figura di un essere decisamente umano che si dimena nel tentativo di non affondare.

Nonostante la sorpresa, entro quasi subito in modalità soccorso e, sebbene quasi senza ossigeno, tendo entrambe le braccia verso di lui che, capendo le mie intenzioni, afferra la mia mano con la mano che aveva ancora libera e, soltanto dopo, lascia andare la mia caviglia per darmi anche l'altra mano. È alquanto strano, ma trascinarlo su verso la superficie sembra un'impresa degna di un titano: pare che qualcosa lo tenga ancorato al fondo - forse qualche alga? Una corrente? -, per cui devo utilizzare tutte le forze che mi restano in corpo per smuoverlo. Comincio ad avvertire una forte pressione alla testa, segno che l'ossigeno a mia disposizione sta terminando, e mi accorgo con terrore che anche il ragazzo comincia perdere conoscenza: da essere un aiuto attivo nell'operazione di salvataggio, diventa improvvisamente un peso morto. Lo tengo forte, aspettandomi che qualcosa lo attiri ancor più verso il fondo, ma non è così. Anzi, finalmente mi sento capace di risalire a galla.

Nuoto con foga, sbattendo i piedi velocemente, anelando aria. Quando riemergo, mi stupisco sentendomi prendere una rumorosissima boccata d'ossigeno.

Mi impegno come posso nel portare il ragazzo a riva, conscia di dover agire prima che per lui sia troppo tardi. Non è facile, attraverso il lago tenendogli con un braccio la testa fuori dall'acqua e tentando di nuotare con l'altro: bevo litri e litri di acqua putrida, tossisco, sputo, ma l'unico obiettivo che ho è salvare la vita che è letteralmente tra le mie mani.

Quando finalmente riesco a toccare il fondale con le punte dei piedi, impiego tutte le mie forze per raggiungere la riva, trascinandomi dietro il corpo esanime. Mi tremano le braccia, le gambe, la gola brucia per tutta l'acqua che ho ingurgitato, però sono riuscita a posare il ragazzo sulla ghiaia.

Istintivamente, avvicino un orecchio alla sua bocca, sperando di udire il suo respiro. Niente.

Mi impongo di non lasciarmi prendere dal panico e richiamo alla memoria le tecniche di primo soccorso imparate a scuola. In ginocchio accanto a lui, gli chiudo il naso tra due dita e soffio nella sua bocca, sperando che accada qualcosa. Alterno a quest'operazione un massaggio cardiaco, anche se non sono certa di farlo nel modo giusto. Ma cosa potrei fare? Non ho alternative. Chiamare qualcuno è escluso, considerato che non riuscirei né a trasportarlo su per il sentiero, né sopravvivrebbe per il tempo che mi ci vorrebbe a tornare in città e trovare una persona che effettivamente possa aiutarlo. Io sono tutto quello che ho.

Ripeto l'alternanza respirazione bocca a bocca-massaggio cardiaco, cercando di autoconvincermi che può funzionare. Deve funzionare. Come lo spiego di aver trovato un tizio nel lago? Come spiego l'improvviso desiderio di tuffarmi a fare una nuotata?

Al terzo massaggio - sempre più energico e più disperato - succede qualcosa.

Uno spasmo, un fremito in quel corpo pallido e poi tosse. Un sacco di tosse. Aiuto il ragazzo a girarsi su un fianco mentre vomita acqua. Fiumi di acqua che svuotano i suoi polmoni.

«Dove diavolo sono?», mi chiede con voce strozzata, i colpi di tosse che gli scuotono il torace e le spalle. All'improvviso capisco che non so cosa rispondergli. Questa situazione mi trascina nel panico, cerco invano di ricordare le prime parole che mi sono state dette quando, terrorizzata, mi sono svegliata in questo posto, dall'altra parte. Forse mi avevano detto di stare tranquilla? O mi avevano sbattuto direttamente in faccia il fatto che fossi morta?

Mortale. Le due vite di Evelyn Sullivan.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora