Capitolo IV

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«Abbiamo bisogno d'aiuto», riesco a dire, prima che Derek si accasci completamente su di me. L'infermiera, una donna alta dalle forme accentuate, si precipita nella nostra direzione, l'espressione preoccupata.

«Cos'è successo?», mi chiede, aiutandomi a sorreggerlo. Intanto, senza aspettare che risponda, ci trascina tutti e due con una forza sorprendente per il corridoio, guardando in tutte le stanze alla ricerca, evidentemente, di qualcuno o qualcosa.

Un'occhiata interrogativa rivolta anche a me, mi sollecita a darle una risposta. «Continua a vomitare», dico «Sangue. Ha bevuto acqua del lago».

«Santo Cielo, ma come vi salta in mente? Perché siete entrati nel lago?!», urla e più di una testa si volta di scatto nella nostra direzione. Cerco di non farci caso, perché finalmente l'infermiera riccioluta si ferma in una stanza enorme, stracolma di pazienti, ma nella quale è disponibile una barella. Adagiamo Derek su di essa, lui sembra aver quasi perso conoscenza, tiene stretta entrambe le braccia attorno allo stomaco, i capelli neri sono appiccicati alla fronte sudaticcia, le labbra contratte in una smorfia di dolore.

«Lui era nel lago, io ho solo cercato di aiutarlo», mi discolpo, ma l'infermiera mi zittisce e scompare tra le corsie. Torna dopo pochi minuti al seguito di quello che sembra un medico, stetoscopio compreso, e due uomini che hanno tutta l'aria di essere guardie giurate, in divisa blu e berretto.

Il medico mi indica con la mano di spostarmi e comincia a visitare Derek, mentre le due guardie mi accerchiano e, sottovoce, mi invitano a seguirle. Trasalisco. Lo sapevo che mi sarei messa nei guai, perché non do mai retta al mio istinto?
Mentre mi faccio guidare in una stanzetta piccola e stretta quanto uno sgabuzzino delle scope, cerco di mettere insieme la spiegazione più convincente possibile per tirare me – e anche Derek – fuori da questo guaio.

Al centro della stanzetta c'è una sedia su cui uno dei due, intanto che si chiude la porta alle spalle, mi indica di sedermi. Le mani mi sudano tanto che ho paura di lasciare un'impronta sui pantaloni del pigiama e svelare il mio nervosismo.

«Signorina...», inizia uno, il più muscoloso, con la barbetta nera corta e ispida e un paio di baffetti che gli incorniciano le labbra sottili.

«Sullivan», mi affretto a completare per lui.

«Signorina Sullivan...lei lo sa che è vietata la balneazione nel lago? La segnaletica è molto chiara».

Segnaletica? Non credo di aver mai visto in quel luogo una segnaletica che impedisca di buttarsi nel lago, nonostante il buon senso me lo abbia comunque sempre vietato. Fino a ieri.

In ogni caso, non credo sia una buona idea rispondere che non ho mai notato alcun segnale, per cui invento. «Lo so», mento. «Ma ho visto qualcuno agitarsi nell'acqua e mi sono tuffata per aiutarlo».

Non era vero, ma non ci sono delle telecamere in quel luogo. O sì? Che io non le abbia viste così come questi fantomatici segnali?

L'altro agente, che si è levato il berretto, ha i capelli biondo cenere tirati indietro con il gel e mi scruta attentamente, come se volesse captare una bugia. Trattengo il fiato, sperando che quei due non abbiano il super udito perché, se così fosse stato, avrebbero sentito il mio cuore martellare all'impazzata.

«Ci racconti esattamente quello che è successo al lago», ordina, mentre l'altro tira fuori dalla tasca della camicia un taccuino e una minuscola penna.

Inizio a parlare ma devo schiarirmi quasi subito la gola. «Sono andata a fare una passeggiata al lago nel pomeriggio. Sembrava tutto normale fin quando mi sono accorta che le acque erano agitate e ho avvistato qualcosa – be', qualcuno. Non ho potuto far altro che gettarmi e salvare quel ragazzo, avevo paura che se mi fossi allontanata per chiedere aiuto, Derek sarebbe affogato». La mia spiegazione era semplice, chiara, credibile. Di cosa avrebbero potuto accusarmi? Di aver salvato qualcuno?

«Signorina, non è possibile che lei sia soprav-», comincia a dire l'agente di polizia col block notes, la penna a mezzaria.

Il biondo si volta di scatto nella direzione del collega e lo fulmina prima che possa finire la frase. «Basta così, Donovan. La signorina Sullivan ha agito per delle buone ragioni».

Sono stupita da quell'inversione di marcia, ma allo stesso tempo non ho alcuna voglia di indugiare un minuto di più in quello sgabuzzino soffocante. Mi alzo, ringraziando e salutando i due, ed esco dalla stanza. Torno nella camera in cui avevo lasciato Derek e, quando non lo vedo, l'infermiera che ci ha accolti mi informa che l'hanno portato in sala operatoria.

«Sala operatoria? E per fare cosa?», esclamo, scioccata. Perché un po' d'acqua putrida dovrebbe far finire qualcuno sotto i ferri?

«Tesoro, il tuo amico ha probabilmente un'emorragia interna», annuncia, posandomi una manona smaltata di rosa shocking sulla spalla.

Probabilmente la mia espressione deve preoccuparla, perché mi guarda con occhi colmi di compassione e mi sospinge dolcemente verso la sua postazione, cacciandomi in mano un modulo da compilare. «Scrivi qui tutti i tuoi dati, ti chiameremo non appena potrai fare visita al tuo amico». Mi indica la penna attaccata al bancone con un elastico, in modo tale che nessuno possa portarla via.

Non potendo fare altro, scrivo il mio nome, la via in cui abito, il mio numero di telefono sul foglio. Ringrazio l'infermiera che mi sorride e abbandono l'ospedale, consapevole che mi aspetta una lunghissima camminata verso casa. Intanto, cerco di convincermi che Derek sia in buone mani. Perché dovrebbero fargli del male? Non avrebbe senso. Allo stesso tempo, però, ripenso al comportamento sospetto dei due agenti, era palese che mi stessero nascondendo qualcosa... Sono quasi sul punto di tornare indietro e attendere in sala d'attesa che qualcuno mi dia notizie di Derek, ma poi penso che magari potrei tornare in ospedale in bici, subito dopo essermi sistemata e vestita con degli abiti consoni.

Circa mezz'ora dopo, quando arrivo a casa, Kerouac è dietro la porta che mi aspetta. Sono sicura che abbia fame – i suoi miagolii sono inconfondibili –, per cui svuoto una scatoletta nella sua ciotolina prima di salire a cambiarmi.

Mi do una rapida occhiata allo specchio in corridoio: le occhiaie sono profonde, violacee, mi danno un'aria trasandata così come i capelli arruffati, le ciocche sfuggite all'elastico. Spostare me e Derek in ospedale in quella modalità, sfruttando quello che io chiamo "il mio potere magico" soltanto perché non so spiegarmelo e non so dargli una definizione logica, è stato faticoso. I muscoli mi dolgono in tutto il corpo, la spossatezza mi invade.

Mi trascino in camera, indosso qualcosa di comodo, sistemo i capelli alla bell'e meglio, infilo le scarpe da ginnastica e torno al piano di sotto in meno di cinque minuti. Prima che possa aprire la porta e uscire a sganciare la mia bici dalla rastrelliera in giardino, qualcuno suona al campanello. Era un evento così raro che lo stesso suono mi sembrava estraneo.

Non guardo nemmeno dallo spioncino, tanto sono sorpresa, e mi ritrovo faccia a faccia con i due agenti dell'ospedale, il biondo e il barbuto. Perché due guardie giurate dovrebbero presentarsi a casa mia per darmi notizie su una persona che ho conosciuto solo qualche ora prima? Qualcosa, evidentemente, non va.

«Signorina Sullivan, siamo gli agenti Donovan e Lexington, ci siamo visti in ospedale. Dobbiamo parlarle. Le dispiace farci entrare?», chiede l'agente biondino, la mano che ferma la porta.

Resto in silenzio, non riuscendo a scacciare via il pensiero di essermi messa in guai seri. Per fortuna, il mio buon senso mi fa tornare in fretta alla realtà: mi scosto per far entrare entrambi, ma prima che possa chiudere la porta, l'agente Donovan mi fa cenno di aspettare. In effetti, una voce lontana giunge fino alle nostre orecchie urlando «Arrivo!» e, sporgendomi fuori, noto un uomo in giacca e cravatta che sta parlando al telefono camminando avanti e indietro.

Pochi secondi e l'uomo chiude la chiamata, infilando il cellulare nella tasca del completo grigio fumo. Si dirige con passo frettoloso verso la porta di casa mia, e a me basta un attimo per riconoscerlo, in tutta la sua magnificenza.

Cazzo. Sono decisamente nei guai.

«Signorina Sullivan, che piacere incontrarla», mi saluta, offrendomi la mano. La prendo e la stringo senza pensarci, completamente catturata da quel sorriso tanto affascinante quanto potente e pericoloso.

Mortale. Le due vite di Evelyn Sullivan.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora