Capitolo III

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A Jack Kerouac non piacciono gli estranei, eppure sembra che in questo ragazzo veda qualcosa di interessante. Appena entriamo ci viene incontro, mi saluta con un miagolio - evitando la solita strusciatina per i leggings bagnati - e annusa l'ospite, miagolando anche a lui.

Derek, evidentemente spossato, starnutisce.

«Sei allergico?», gli chiedo, indicando il mio gattone.

«No, credo che io mi stia ammalando. Hai qualcosa di asciutto da prestarmi?».

Tutto questo tempo da sola deve avermi fatto dimenticare come essere una buona ospite. Me ne vergogno e gli faccio cenno di seguirmi su per le scale, in fondo al corridoio, fino al bagno. Tiro fuori asciugamani puliti, una maglietta extralarge che potrebbe andargli bene e gli unici pantaloncini Nike oversize che ho nell'armadio — chissà perché li ho comprati.

Mi ringrazia e si chiude in bagno, mentre io avvolgo i miei capelli bagnati in un asciugamano e vado in camera a spogliarmi e mettermi l'accappatoio per evitare di beccarmi una broncopolmonite coi fiocchi.

Poi, per non starmene con le mani in mano, scendo e sistemo sul divano delle lenzuola pulite e un cuscino di riserva, un po' troppo soffice per i miei gusti. Per quanto sia alto, dovrebbe starci comodo, penso. Non sono pronta a lasciare la mia camera da letto ad uno sconosciuto.

Il brontolio del mio stomaco – e anche Jack che sposta la sua ciotola con la zampa – mi ricordano che è quasi ora di cena. Do i croccantini a Kerouac, prendo dal freezer delle panatine da mettere in forno e intanto preparo un'insalata mista: apparecchio per entrambi anche se non sono sicura che Derek abbia voglia di mangiare viste le condizioni del suo stomaco dopo la dieta a base di acqua putrida. Rabbrividisco al ricordo di averne bevuta anche io parecchia, ma fortunatamente questo non sembra avermi causato alcun problema intestinale.

Sento i suoi passi sulle scale – quanto mi erano mancati i rumori prodotti da qualcun altro che gira per casa – quando le panatine sono ormai pronte. «Giusto in tempo!», gli dico. «Hai fame?».

Si lascia cadere su una sedia, visibilmente stanco. «Non molta. Ho vomitato un'altra volta».

«Nemmeno un po' di insalata?».

«No, penso che mi limiterò a guardarti mangiare». Incrocia le braccia sul tavolo e vi appoggia su il mento. I capelli asciutti sono un po' crespi e ribelli, di un castano molto scuro. Gli occhi, invece, sempre in tempesta.

Nel complesso è un bel ragazzo, forse un tantino cupo, ma come biasimarlo dopo quello che è accaduto oggi? Non posso nemmeno immaginare cosa stia provando in questo momento: scoprire di essere morti è un gran brutto colpo.

«Perché ti sei buttata nel lago per salvarmi?», mi chiede a bruciapelo, e quasi mi va di traverso il boccone che ho appena addentato.

Già. Perché mi sono buttata? Perché quel lago mi stava chiamando?

«In realtà, non avevo capito che ci fosse qualcuno che stava affogando», confesso, guardando il mio piatto, imbarazzata.

«E perché diavolo ti sei immersa in un lago vestita?», esclama, incredulo.

Questa volta la panatina mi va davvero di traverso. Comincio a tossire e lui mi versa dell'acqua nel bicchiere, spingendomelo sotto il naso. È strano che solo adesso io mi stia accorgendo di indossare ancora l'accappatoio ed il turbante? Questi mesi di solitudine devono avermi fatto molto male. So di essere paonazza e spero che Derek pensi che il colore del mio viso sia legato allo scampato soffocamento.

Non rispondo alla sua domanda, ingurgitando in fretta ciò che resta della mia cena e andando via con la scusa di dovermi assolutamente fare una doccia. Faccio le scale a due a due, desiderosa di scomparire il più in fretta possibile dalla vista del mio ospite, recupero della biancheria pulita dalla mia camera e mi chiudo in bagno.

Lo specchio è ancora appannato dal vapore, ma riesco a vedere distintamente la mia immagine. Cosa mi è saltato in mente? Tuffarmi in un lago... volevo morire? È stato un tentativo di suicidio? E portarmi a casa un ragazzo che è quasi affogato che idea è? Avrei dovuto portarlo dritto in ospedale, qualcuno dovrebbe visitarlo e assicurarsi che stia bene. Ora che è qui bisogna quantomeno portarlo all'Anagrafe e farlo registrare: non penso che mai nessuno sia sfuggito a questo protocollo. Men che meno voglio essere la prima a mettersi nei guai per questo. O per aver fatto una nuotatina non autorizzata.

Dubbi e domande continuano ad assillarmi mentre l'acqua bollente mi scivola addosso, rigenerandomi. Prima di uscire indosso una banale tuta lilla, tanto ormai l'occasione di fare una buona impressione è passata.

Quando torno in cucina mi trovo davanti ad una scena che mi sconvolge: Derek è chino sul lavabo intento a strigare i piatti in cui ho mangiato con la spugnetta. Questo tizio è davvero davvero fuori di testa.

«Derek, che fai!? Sei un ospite e in più non hai nemmeno cenato!», quasi urlo, sfilandogli la spugna dalle mani.

Lui sorride. «Tranquilla, per mia madre lo faccio sempre. Be'... lo facevo». I suoi occhi assumono una tonalità sul grigio scuro, cupi e tristi.

«Mi dispiace», gli dico, accorgendomi che la spugnetta sta gocciolando sul parquet. Lui se la riprende e distoglie lo sguardo senza dire niente.

«Immagino che dovrò farci l'abitudine. Spero solo che lei se la cavi da sola...», sussurra, mesto. Termina di sciacquare il piatto con l'acqua corrente e lo posiziona sul ripiano. Come se fosse a casa sua, sa anche dove si trovano gli strofinacci: afferra il primo che trova, si asciuga e lo stende sul pomello dell'anta dell'armadietto sotto il lavandino.

«Sono esausto», mi dice, coprendosi gli occhi con la mano.

Lo invito ad andare in salotto, dove ho sistemato il divano in modo da renderlo comodo e accogliente.

«Non è il massimo», annuncio «ma dovrebbe essere comodo».

Lui mi rivolge un sorriso stanco. «Tranquilla, sono abituato a dormire in posti peggiori».

«Allora buonanotte», lo saluto, dirigendomi verso le scale.

«Buonanotte».

***

Mi sveglio di soprassalto.

Un rumore, un'imprecazione, la luce del corridoio che entra in camera mia attraverso la stretta fessura lasciata dalla porta quasi chiusa. Ci metto qualche secondo per realizzare di aver invitato un'altra persona in casa, riuscendo a calmarmi almeno un po'. Sarebbe plausibile subire un'effrazione in paradiso? Ci rifletterei sul serio se non sentissi il mio ospite in preda ad un violentissimo attacco di tosse.

Mi alzo in fretta per raggiungerlo. La luce del corridoio mi costringe a chiudere gli occhi ormai abituati all'oscurità. Quando finalmente la mia vista si attiva, vedo Derek piegato sulla tazza del wc, il volto smunto e ridotto ad uno straccio.

«Scusa, ti ho svegliata», mormora con un filo di voce, interrotto da un conato di vomito. Mi inginocchio vicino a lui, accorgendomi con orrore che sul bordo del water e sul pavimento ci sono tracce di sangue.

«Devo portarti in ospedale», gli dico, risoluta ma allo stesso tempo spaventata. Cosa diavolo gli è successo in quel lago? Non può stare così male solo per l'acqua ingerita. C'è qualcosa che non va.

Derek vomita un'altra volta. È un liquido dalla sfumatura rossastra.

«Dobbiamo andare subito», gli dico, cercando di aiutarlo ad alzarsi. È molto pesante e malfermo sulle gambe, però mi convinco che posso farcela. Che devo farcela.

Non abbiamo abbastanza tempo né le forze di raggiungere l'ospedale con qualche mezzo di trasporto: Derek sta troppo male, non ho un'auto e non sono capace di trascinarlo per chilometri, per di più nelle condizioni in cui verte in questo momento.

C'è un'unica possibilità. Qualcosa che mi costerà sicuramente una bella ramanzina da parte dei Superiori, ma che potrebbe salvare la vita di Derek. Un'altra volta.

Perciò chiudo gli occhi, cercando la concentrazione, e avverto quel pizzicore in mezzo alle scapole così familiare, eppure così estraneo al mio corpo.

Prima di riaprire gli occhi so già che ha funzionato, perché il pizzicore alle scapole è scomparso e una donna ha appena urlato: «Per l'amor di Dio, e voi due da dove sbucate?!».

Mortale. Le due vite di Evelyn Sullivan.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora