Se mi avessero chiesto di descrivere il luogo dove mi trovo oggi - chiamatelo Paradiso, se volete, Aldilà, regno ultraterreno - non mi sarei neanche lontanamente avvicinata alla realtà. Immaginerete, probabilmente, un posto tranquillo, con il sole caldo, nuvolette bianche e vaporose, il canto degli uccellini - o degli angeli -, anime che fluttuano felici, incorporee, leggere... Eppure, incorporeo è proprio l'opposto di quello che si riflette nel mio specchio. Stuzzico un rotolino di pancia tra le dita, mentre mi convinco della necessità di migliorare la mia squilibrata alimentazione. Non sono stata capace di darmi una regolata in vita, cedendo alle tentazioni di patatine, cioccolata, pizza e dolciumi vari, figuriamoci se avrò la forza di volontà per farlo ora, in questo posto letteralmente lontano dal mondo.
Stanca di rimirarmi con l'espressione sempre più corrucciata, tiro giù la t-shirt e mi avvicino alla finestra aperta per metà. La mia camera da letto è una di quelle camere con la panca sotto la finestra, panca che ho ricoperto di cuscini per sedermici comoda a leggere. Mi affaccio, attirata da alcune voci che provengono dalla strada, e noto la signora Norton, la vicina, che scambia i soliti convenevoli con il signor Rockfeller, un uomo sulla settantina - oserei dire siano quasi coetanei - che passa ogni mattina in bicicletta per la nostra strada. È palese che i due si stiano molto simpatici, e sarei davvero felice se il vecchio Rockfeller si decidesse ad invitare la signora Norton a prendere un tè.
Osservo i due salutarsi e torno alla mia camera, disordinata come lo sarebbe stata sulla Terra: il letto ancora sfatto - è quasi ora di pranzo -, vestiti gettati alla rinfusa sia ai piedi del letto che su una sedia, scarpe in mezzo alla stanza, pericolosi ostacoli alle capatine notturne in bagno o nel frigorifero - non si può morire una seconda volta (credo), ma il dolore lo si può provare eccome. Vorrei poter dire che la scrivania sia l'unico piano ordinato di quell'inferno di abiti e oggetti, ma non è così: penne, fogli e chissà cos'altro sono dimenticati e sepolti sotto libri di ogni sorta.
Disapprovando me stessa e il campo di battaglia in cui vivo, scendo al piano di sotto per mettere qualcosa sotto i denti. Kerouac, il mio gattone nero dagli occhi verde giada, mi viene incontro sulle scale, miagolando come al solito in disperata ricerca di cibo. Per come si impegna, sembrerebbe che io lo lasci digiuno per settimane e invece consuma anche troppi pasti al giorno per un gatto della sua età. Lo accontento con pochissimi croccantini, sperando per un attimo che abbocchi alla mia farsa giornaliera a cui, puntualmente, non abbocca mai.
Sistemato Jack (sì, proprio Jack Kerouac), metto insieme un pranzetto per me con quello che ho in dispensa, senza nemmeno apparecchiare e sedermi. Mangio in piedi, con svogliatezza, pensando a quanto la mia vita dopo la morte sia più normale e noiosa della mia vita prima di morire.
Soni in questo luogo - che, per convenzione, chiameremo paradiso - da ormai sei mesi, ho imparato a conoscere la città, i suoi ritmi, le strade, i negozi, le regole, le gerarchie, ma poco i suoi abitanti. Fatta eccezione per la signora Norton, con la quale ho scambiato qualche parola appena mi è stato comunicato che d'ora in poi avrei vissuto qui in questa casa, non ho conosciuto nessun altro. E non riesco a spiegarmene il motivo.
La gente che incontro per strada non è poco cordiale, né diffidente, anzi, sembra gentile, calorosa, disponibile. Eppure... così superficiale. Posso scambiarci due chiacchiere, ma tutto finisce lì. Nessuno che mi chieda del mio passato, di come io sia arrivata lì, di chi abbia lasciato: come in The Sims, ogni personaggio è impegnato nelle sue compere, nelle sue faccende, tanto che ad un certo punto, dopo un mese di solitudine, ho anche cominciato a credere che sia proibito. Ma dove sì è mai visto un mondo in cui è proibito farsi degli amici?
Sono passati mesi e io mi rassegno sempre più ad un'esistenza solitaria, del tutto diversa da quella che ho condotto in vita. Mi sono anche interrogata più volte a proposito del destino del mio amico Josh: al momento dell'incidente era più o meno davanti a me, e se non è stato così pronto di riflessi da gettarsi di lato e scansarsi, doveva essere stato travolto anche lui. Non averlo trovato in questo posto, un po' mi ha fatto sperare che si sia salvato, però in realtà non sono del tutto sicura che questo sia l'unico Aldilà esistente. E nemmeno c'è mai stato qualcuno a cui potessi domandarlo.
Mi impongo di reprimere l'angoscia che quei pensieri si portano dietro e decido di uscire a fare una passeggiata. È sabato pomeriggio, non ho particolarmente voglia di studiare - in questo posto c'è anche l'università, esatto - e la temperatura fuori è molto piacevole. Esco, la signora Norton è lì che annaffia le sue piante, mi sorride dolcemente mentre io agito una mano nella sua direzione per salutarla.
La strada è deserta, gli unici rumori sono quelli del vento tra le fronde e il ronzio delle api che danzano sui fiori. Lascio che siano i miei piedi a guidarmi e mi ritrovo nei pressi del lago, uno dei miei posti preferiti, scoperto poco tempo dopo essere arrivata in questa città così simile eppure così diversa da quella in cui ero abituata a vivere con i miei amici e la mia famiglia.
C'è un boschetto di conifere da attraversare per raggiungere il piccolo specchio d'acqua: il sentiero è unico, di solito leggermente fangoso, ma oggi il terreno è abbastanza compatto per il clima mite delle giornate precedenti. Mi avvio senza fretta, gustandomi l'aria tiepida, gli odori freschi primaverili e giocando con le ombre e i raggi di sole che riescono a penetrare la boscaglia.
Il lago è di un colore grigio-verde, immagino per il fondale melmoso e pullulante di alghe. L'acqua dolce sembra pesante, quasi oleosa, eppure ogni tanto si vedono sguazzare dei pesciolini rossi - lungi da me sapere di che tipo di pesci si tratti. Mi siedo a gambe incrociate sulla ghiaia che circonda questa pozza d'acqua scura, sentendo l'umidità penetrare il sottile tessuto dei miei leggins. Intorno a me la natura sembra immobile, come in attesa di qualcosa: qualche insetto ronza vicino alle mie orecchie, ma io mi limito a cacciarlo via con un movimento svogliato della mano.
Avrei dovuto portare un libro o qualsiasi altra cosa che mi impedisca di pensare agli enormi perché della mia vita. Perché proprio io? Perché morire a ventotto anni, senza avere la possibilità di completarmi? Perché finire in un luogo del genere, dove sentirsi incompleti per l'eternità? Non sarebbe stato meglio finire nel Nulla? Senza coscienza, senza sensazioni, senza sentimenti. La solitudine mi attanaglia, stringe in una morsa il mio stomaco: non sono felice. Non lo ero prima, non lo sono adesso. Un cambiamento così grande come la morte non può lasciare le cose esattamente come sono, no?
Guardo il lago, come a voler cercare una risposta lì dentro. Non ho avuto il coraggio di chiedere a qualcuno - d'altronde, a chi avrei potuto domandarlo? - se fosse possibile morire una seconda volta. Se entrassi nell'acqua, camminassi fino a non toccare più il fondo, mi immergessi completamente e lasciassi che i miei polmoni siano invasi da quel liquido viscido, cosa accadrebbe? Rimarrei per sempre bloccata in uno stato di morte-non morte? Andrei da un'altra parte? Finirei nel tanto famigerato Nulla?
Tentare mi ha sempre spaventata.
Ma oggi... Oggi sembra che quel bacino d'acqua stagnante mi chiami. Dal centro vedo espandersi delle creste leggere, come se qualcosa al suo interno si stia muovendo e mi stia invitando a raggiungerlo. Sono rapita da quei cerchi concentrici, che quasi non mi accorgo di essermi alzata e avvicinata alla riva. Senza pensarci troppo, mi levo le scarpe e le scalcio via, ignorando il dolore che i sassolini mi provocano alle piante dei piedi. Faccio un passo nel lago, tiepido, meno melmoso e oleoso di quanto lo immaginassi. Arrivare con l'acqua al livello delle scapole è semplice e rapido. Le alghe ricoprono i miei piedi, i calzini e i vestiti sono incollati al mio corpo. Tengo le braccia sollevate a pochi centimetri dall'acqua, per aiutarmi a darmi la spinta e andare avanti. Il movimento cadenzato proveniente dal centro del lago non si è mai fermato, il mio ingresso sembra non aver alterato la sua natura.
Con l'acqua al collo, mi decido finalmente a staccare i piedi dal fondale. Nuotare, però, non è così semplice come camminare: mi sforzo più che posso, con l'unico obiettivo di raggiungere il centro. Pochi metri mi separano da quel punto.
Quando, finalmente, sono molto vicina, sto ansimando. Non sono mai stata una nuotatrice provetta, ed in mare, con l'acqua salata, è molto più semplice che in questa pozza che diventa sempre più scura e fangosa.
Sono lì che mi allungo a toccare il cerchio che origina gli altri ma, prima che possa farlo, tutto si ferma. Rimango un attimo a galla, risvegliata da quel cambiamento. Improvvisamente prendo coscienza piena di quello che ho appena fatto, di dove mi trovo, del freddo che mi penetra le ossa, dei vestiti pesanti e appiccicati al mio corpo.
Il panico mi assale.
Ma prima che io possa raccogliere le forze per voltarmi e tornare a riva, qualcosa mi tira giù.

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Mortale. Le due vite di Evelyn Sullivan.
FantasyLa vita di Evelyn Sullivan è cambiata dopo l'incidente. Non ha più la sua casa, la sua famiglia, i suoi amici: sono bastati una notte ed un pirata della strada a portarle via tutto. La solitudine, nel luogo in cui è costretta a stare, è qualcosa che...