Capitolo 2 - Gli uomini-cipolla

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Mina

Una vecchia carriola arrugginita giaceva capovolta in un angolo, alcuni utensili di metallo erano sparsi da una parte all'altra e una piccola piantina stava esalando i suoi ultimi respiri lungo il vialetto. Il piccolo giardinetto era un disastro, segnale inequivocabile del fatto che mio padre avesse intrapreso, per l'ennesima volta, un rocambolesco progetto di floricoltura non andato a buon fine.

Erano ormai le ventidue passate quando mi ritrovai di fronte alla facciata caotica della nostra modestissima villetta a schiera a tre piani, appena fuori dal centro.

Mi sentivo emotivamente e fisicamente sfiancata da quella giornata che era stata interminabile, così come le continue lamentele della mia collega Vittoria. Dopo l'inaspettata e sgradita incursione del suo acerrimo nemico, il signor Coso De Angelis, aveva trascorso ben due ore a disperarsi della nostra figura barbina e, soprattutto, della catastrofe annunciata che si sarebbe abbattuta sulle nostre miserabili esistenze il giorno dell'inaugurazione di Incanto. Continuava a ripetere, in un leitmotiv quasi ipnotico, che saremmo finiti in carcere accusati di tentativo di incendio doloso e né io, né suo padre, né il dormiente signor Armando ci eravamo presi la briga di farle notare che soltanto lei aveva esternato quella folle idea e che quindi, nell'utopistica ipotesi in cui fosse accaduto, sarebbe stata soltanto lei a finire dietro le sbarre.

In preda al panico aveva googlato: "Prospettive professionali per ragazza bellissima, intelligente, ex galeotta e con poca, anzi pochissima, voglia di lavorare" e, a giudicare dall'espressione schifata in cui si era contratto il suo volto, la sua ricerca non aveva dato i risultati sperati. Quindi, ormai rassegnata al suo triste fato, aveva iniziato a mandare curricula identici in qualsiasi bar della città.

Anche all'Incanto.

Renzo si era limitato a rivolgerle occhiate bonarie e accondiscendenti, annuendo sistematicamente alle sue incessanti lagne che, fui certa, non stesse minimamente ascoltando, occupato com'era sulle sue carte, lavoro che ultimamente sembrava destargli parecchia preoccupazione. lo, invece, per preservare la mia serenità mentale, ormai messa a durissima prova dalla sua petulanza, avevo infilato le cuffiette, mi ero lasciata trasportare dalla musica, e avevo sbrigato velocemente le ultime incombenze prima della chiusura della caffetteria.

Infilai una mano nella borsa disordinata, mentre con l'altra mantenevo in precario equilibrio una busta bianca con un enorme vaschetta di gelato che avevo acquistato sulla via del ritorno per farmi perdonare del ritardo. Constatai la loro consueta assenza e quindi citofonai.

«Chi es?» gracchiò dopo qualche istante l'apparecchio metallico con un'inconfondibile inflessione iberica.

«Abel, sono io! Ho dimenticato le chiavi» confessai. «Di nuovo».

«Claro que sì» aprì velocemente sia il cancelletto che il portoncino, poi aggiunse. «Vieni, siamo tutti qui sotto da papà Pepe».

Sorrisi, intenerita dal fatto che quell'aitante sivigliano si fosse impadronito, ormai da qualche anno, del modo infantile con cui io e mio fratello Tommaso eravamo soliti chiamare nostro padre Giuseppe.

«È qui la mia stupenda, bellissima e stranamente silenziosa famiglia?» esordii, con eccessivo entusiasmo, una volta dentro. «Chi vuole un po' di questo buonissimo gelato?» continuai, facendo sventolare il bottino rinchiuso nella busta che pendeva dalla mia mano destra.

«Ssh, non urlare! Stanno dormendo» mi richiamò mio padre, il tono dolce. Si sollevò con fatica dalla sua soffice poltrona a scacchi bianchi e bordeaux per venirmi incontro, mi strinse in un abbraccio caldo e confortevole e indicò con un gesto veloce del capo il divano al centro del salotto, in cui Vera e Tommaso dormivano beatamente in uno strano groviglio di capelli, gambe,  mani e braccia.

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⏰ Ultimo aggiornamento: 2 days ago ⏰

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