Capitolo 4 - Segnali dall'universo

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Mina

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Mina

Essere la madre single di una bambina di tre anni e mezzo e lavorare a tempo pieno in una caffetteria in centro significava una cosa soltanto: programmazione dettagliata e minuziosa di ogni singola fase della giornata.

La sveglia suonava inesorabile alle ore sei meno un quarto ogni mattina, guadagnandosi i miei vivaci improperi che speravo Vera non sentisse e ripetesse mai. Dopo essermi resa appena presentabile e aver preparato la mia piccola ancora mezza addormentata per la sua giornata in asilo, la caricavo sulla mia automobile di quarta mano e zigzagavamo veloci per le viuzze del centro ancora semi-deserto, arrivando da Renzo per le ore sei e trenta. Quando mancavano quindici minuti alle sette, puntuale come il mega-brufolo sulla fronte il giorno di un appuntamento importante, il faccione del signor Gianfranco, storico proprietario del forno all'angolo, faceva capolino dalla finestra del laboratorio portando con sé l'inconfondibile aroma dei suoi croissant appena sfornati.

Quindi, io e Vera, facevamo colazione. E per me il senso della giornata era tutto lì, in quell'intimo momento quotidiano e senza tempo.

In quell'esatto istante ero certa che tutto ciò che avevo affrontato negli ultimi quattro anni - la decisione, senza dubbio incosciente, di mettere al mondo una figlia a soli diciannove anni, la paura paralizzante di non riuscire e il costante senso di inadeguatezza - ci avesse portato proprio a questo. A noi due, io e la mia splendida bambina con gli occhietti assonnati, che iniziavano ad aprirsi al mondo circostante, insieme, avvolte dall'inebriante profumo del caffè appena macinato e immerse nel silenzio del locale ancora chiuso al pubblico.

Dopo esserci ritagliate quella mezz'ora soltanto per noi, alle ore sette e quindici aprivo le porte e i primi abituali avventori iniziavano a riempire la sala. Vera di solito se ne stava appollaiata tranquilla in un angolo, affollando il tavolino accanto al bancone di giocattoli rumorosi e colorati, in trepidante attesa di Livia, autoproclamatasi "zia migliore dell'universo conosciuto e sconosciuto per sempre", nonché mia più cara amica dall'alba dei tempi.

L'uragano Livia si abbatteva implacabile sulla caffetteria Da Renzo alle ore sette e trenta. Il suo immancabile "Cioè Mina, nonpuoicapirecosamièsuccessoieri buongiorno" rivolto a me, con le parole che si affastellavano l'una sull'altra come tanti piccoli colpi di mitragliatrice, era sempre seguito da un "Amore della zia, vieni qui e fatti sbaciucchiare per bene" urlato con una vocina stridula ad una Vera dallo sguardo innamorato e trasognato. La mezz'ora successiva era scandita dalla mia amica che, sorseggiando il suo cappuccino di soia tiepido con poca schiuma e una spolverata di cannella, si lanciava nel resoconto dettagliato - ma ovviamente censurato data la presenza di una minorenne - della sua ultima disavventura amorosa con l'ennesimo tizio conosciuto su un sito di incontri, mentre io svolazzavo rapida tra il bancone e i tavoli esaudendo le mille richieste dei clienti impazienti e riuscendo a cogliere soltanto pochi sprazzi del suo racconto.

Alle otto Livia sequestrava la marmocchia e si occupava di depositarla all'asilo, situato vicino al suo ufficio, mentre io continuavo a lavorare fino alle quindici. A quell'ora, tranne nelle sempre meno sporadiche occasioni in cui la mia lamentosa collega Vittoria mi chiedeva di coprire il suo turno pomeridiano - e in quel caso l'aiuto di mio padre Giuseppe diventava fondamentale - correvo a recuperare Vera a scuola, tornavo a casa e la preparavo per le lezioni di danza o trascorrevamo l'intero pomeriggio insieme. Alle sette e trenta la cena era pronta e, dopo aver ricevuto la sua consueta dose di coccole da zio Tommi, zio Babel e nonno Pepe, Vera era pronta per indossare il suo pigiamino con le scimmiette e andare a letto presto, in attesa che la mattina successiva la nostra routine ricominciasse da capo.

E se domaniDove le storie prendono vita. Scoprilo ora