Capitolo 3° (seconda parte)

15 4 42
                                    

«Figo quel tatuaggio». Aprii la bocca sorpreso per quello che aveva detto, si avrebbe immaginato di tutto da quella ragazza tranne quelle tre parole. Si era davvero complimentata per il tatuaggio e non si era preoccupava per la ferita? quella ragazza si che era strana, «Uh, dovresti farla vedere da un medico. Vaughan non sa trattenere il suo potere... sai dove si trova?»

«Sì, tranquillo» fu l'unica cosa che dissi e lasciai l'ampia prora di legno chiaro. Avevo abbassato la maglia e sentivo che la pelle pungeva e tirava, non mi ero mai ustionato ma non era di certo una sensazione piacevole. Mi dispiaceva lasciare quel ragazzo, sicuramente aveva sedici anni anche per come si comportava. Certamente un uomo adulto non sarebbe scoppiato a piangere se avesse per sbaglio bruciato qualcosa, oppure proveniva da un ambiente che era così rigido da farlo traumatizzare a quel punto.

Non potevo saperlo: non conoscevo quel ragazzo e di certo ci avrei avuto a che fare altre volte perché compagni di viaggio, ma non mi sarei mai unito a lui in qualche avventura. Nonostante i suoi occhi viola fossero ipnotici, non mi era mai capitato di incontrare un albino e quindi averne uno sulla nave era strano, ma allo stesso tempo affascinante.

L'infermeria si trovava vicino alla sala da pranzo, quindi dovetti camminare lungo tutto il ponte di comando di legno chiaro dalle pareti bianche. Chinavo la testa a tutti i passeggeri, ero educato quindi salutavo tutti. Molto spesso la mia attenzione finiva su qualche essere particolare, perché mi incuriosivano e mi domandavo da che pianeta venissero.

Di certo sapevano che ero di Ny planet perché ero umano come gli altri due, e unici, su quel ponte. Ma anche perché il direttore, Lincoln, mi chiamava spesso "umano". Quindi, volente o nolente, tutti sapevano da dove provenissi, ma non cosa fossi. La vastità di razze ed etnie mi rendeva ostile a volte, ma era solo dovuto al fatto che non avevo mai condiviso parte della mia vita con persone che non fossero umane come me.

«Laser» mi salutò Lincoln prima di ritornare a leggere il suo giornale. Era un uomo di mezza età, con la testa rasata e la pelle scura. Il suo viso era giovane, non aveva molte rughe così come il suo corpo. Come sempre mi dava l'impressione di avere una cinquantina d'anni, ma poi guardavo i suoi occhi e mi dava l'impressione di essere più vecchio. Optai per pensare che non fosse umano e che facesse parte di una popolazione che invecchiava in maniera diversa da quella che ritenevo solita.

«'Giorno» fu la mia unica risposta prima di entrare nell'infermeria bianca e piccola. Nonostante quella nave accogliesse tante persone, la struttura dell'ospedale era davvero stretta e povera. Al centro della stanza bianca c'era una donna dai lunghi capelli biondi e gli occhi neri, era chinata a leggere qualcosa e le sue ali nere erano piegate. Non appena percepì il suono dei miei passi, si voltò verso di me. Aveva un volto giovane, bellissimo ed angelico, ma anche due grandi corna nere sopra la testa. Aveva un'espressione triste, forse dovuta agli occhi cadenti e alle sue labbra che tendevano verso il basso. I suoi occhi erano grandi e profondi e la sua corporatura era snella, sotto al camice bianco indossava un vestito di pizzo nero aderente alle sue curve.

«Ciao, ti posso essere utile?» mi chiese. Sapevo che lei era nata da un'unione tra un demone e una donna, nella mia città si riteneva che creature simili fossero malvagie. Nel sentire la sua voce dolce e leggiadra compresi, però, che spesso quello che si pensava di determinate razze era soltanto uno stereotipo.

«Sì, Vaughan con il potere del fuoco mi ha ustionato la pelle. Puoi dare un'occhiata e fammi sapere cosa devo fare o mettere?» Domandai mentre lei mi faceva segno di sedermi sul materasso, così non me lo feci ripetere due volte e mi misi comodo. «Non l'ha fatto apposta. Mica finisce nei guai?»

«Vaughan? Mi ricordi chi è?» mi chiese mentre con le sue lunghe dita mi alzava la maglietta, aveva la fronte aggrottata.

«Il ragazzo albino umano come me.» Dissi chioccio, lei annuì aprendo leggermente le labbra rosse e sottili.

«No, no! Nessuno finisce nei guai se non si sa gestire il potere. L'importante è che non abbia bruciato nulla, non sopporto quando Lincoln si lamenta!» Mi sorrise lasciandomi lì senza maglietta e si avvicinò all'armadio a un'anta per prendere una pomata. «Solo che non puoi usare i tuoi poteri. Che abilità hai?» mi domandò mentre poggiava una bottiglia trasparente con un liquido rosso.

«Sono un Dyrmagisk, ma non dirlo a nessuno», sussurrai mentre la sua mano si avvicinava a me con un cotone bianco bagnato da quel liquido che aveva un odore terribile, quasi di benzina.

«Tranquillo, il tuo segreto è in buone mani. Io sono un'unione tra un demone e un Huli Jing, lo sa solo Lincoln e tu ora», mi spiegò ma non sapevo cosa fosse un Hulikan. «Allora non puoi trasformarti fino a che non guarisci. Ti sto facendo male?»

«Un poco» risposi mentre mi mordevo il labbro inferiore per non gemere a causa del dolore. Lei si stava muovendo con delicatezza, ma l'ustione era comunque fresca.

«Scusa, ma è fresca ancora. Meglio che attacco subito, dovresti guarire molto più in fretta».

«Va bene, devo prendere qualche pillola?» domandai mentre lei mi fasciava il fianco.

«Sì, antidolorifico e antibiotico. Ma cerca di non sforzarti troppo...» Si zittì mentre mi dava la maglia. «Mi piace questo tatuaggio», disse indicando l'albero e il corvo che volava verso i rami, «Sono tutti belli».

«Grazie» fu l'unica cosa che dissi prima di infilare la maglia e poi sgattaiolare fuori dall'infermeria. Con la pancia che brontolava decisi di andare nella sala da pranzo e prendere la colazione, ma fui sorpreso quando la ritrovai piena con un odore di salato. Lanciai uno sguardo all'orologio e notai che era l'una e mezza. Avevo corso per tre ore ed era normale che stessi morendo di fame. Così con le gambe stanche mi trascinai verso il buffet afferrando un piatto di pasta con la salsa e melanzane, un pezzo di pane e della macedonia. Mi guardai intorno, cercai un tavolo in fondo alla sala e vuoto. Quando lo trovai corsi fino a lì e mangiai il tutto da solo. Mi guardai per tutto il tempo intorno: ero solo e non avevo nessuno, ma era meglio così.

Però mi dispiaceva non avere nessuno con cui divertirmi, soprattutto quando osservavo i gruppi di amici che ridevano e scherzavano insieme e sembravano così felici e spensierati. Io non lo ero mai stato. Decisi, dopo che mi ero depresso, di finire di mangiare tutto senza dare attenzione a ciò che mi circondava. Presi anche l'antidolorifico che mi aveva dato la dottoressa e poi decisi di andare nella mia camera, dove mi sarei addormentato.

Spazio autrice:
Sì, Lester credici che non ti unirai a Vaughan e Vilde in qualche avventura. No, perché se ci credi tu almeno un illuso in questa storia c'è 🤭

Comunque, prima interazioni dei bimbi ehehe

La presa al varcoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora