Contesto: Modern!AU, anni contemporanei
Genere: Introspettivo, slice of life
Avvertimenti/TW: menzione di disturbi mentali, psicoterapia
Prompt(s): Modo/Ricciardi in una sordida e ben poco professionale relazione psichiatra (Bruno) e paziente (Luigi) (copia-incollato dai commenti sotto il post).
Note: Potrebbe saltarmi il grillo di rendere questa shot parte di una mini-long, di qui il finale molto aperto, ma non ho il tempo materiale per farlo, al momento :')«Che genere di "stranezze" vedrebbe, signor Ricciardi?»
Il dottor Modo alza gli occhi scuri a fissarlo e, per la prima volta da quando è in cura presso di lui, vi riluce una stilla di curiosità più marcata, forse più personale che lavorativa.
«Non saprei spiegarglielo in termini medici.»
Ricciardi serra tra loro le dita in grembo per evitare di torcerle e tirarsele. Sa che ogni suo piccolo tic non passa inosservato.
Esita ancora, scomodo sulla poltroncina di pelle che, sin dal primo giorno, ha preferito al lettino. Il dottor Modo aveva preso un appunto sul suo quaderno, a quella scelta. Raddrizza la schiena contro l'imbottitura che stride a ogni minimo movimento e che ogni volta gli fa rimpiangere il lettino; ma ormai è tardi per cambiare postazione e non vuole che anche quel cambiamento venga trascritto nero su bianco con chissà quale interpretazione, ben distante dal semplice fatto di detestare quel rumore acuto.
In sottofondo, il traffico strombazzante sull'adiacente Via Marina riempie il suo lungo silenzio.
«Forse, le definirei "allucinazioni",» conclude infine, già pentito d'aver parlato.. «Non sono schizofrenico,» si sente subito in dovere d'aggiungere, anticipando una domanda del medico, che tace e riporta con l'indice gli occhiali da lettura in cima al ponte del naso.
«Questo, in realtà, dovrei stabilirlo io.» Un sorriso fumoso gli compare sul volto. «Mi sorprenderei, però, se lo fosse. Non manifesta alcuno dei sintomi o problematiche che accompagnano solitamente la schizofrenia. Oppure, sono solo un pessimo psichiatra che si lascia ingannare facilmente da lei.»
Ricciardi sorride appena di rimando, tranquillizzato da quel modo di fare che, ne è certo, non è affatto professionale; non lo sarebbe neanche per lui nell'interrogare un sospetto o un testimone e, in fin dei conti, forse i loro lavori non differiscono poi così tanto.
Il dottor Modo ricade spesso in quel parlare quasi burlesco. Allora, gli sembra di conversare con un amico di vecchia data, piuttosto che col proprio psichiatra. Soprattutto quando appunta gli occhi scuri nei suoi e sembra scavarvi dentro con un battito di ciglia. In effetti, lo conosce da più tempo di molti altri suoi cosiddetti amici.
Raffaele è la persona che più si avvicina a un rapporto del genere, ma esso rimane confinato nella dimensione lavorativa, salvo qualche occasionale pranzo assieme alla sua famiglia. Livia, d'altro canto, si dimostra a tratti amica, a tratti amante, a tratti semplice conoscente, ed è guardingo di quei sentimenti che gli fa sfarfallare nel petto quando lo guarda, così mutevoli a seconda dell'umore che lo coglie.
Non è bravo a stringere rapporti con la gente. Né la gente sembra mai propensa a stringerli con lui, ma non può dare loro torto. Dopotutto, la vita che si è scelto è solitaria per definizione.
Dopo anni di terapia inconcludente atta a gestire una non meglio definita ansia generalizzata, ed essere passato per psicologi e psicoterapeuti che, dopo qualche seduta, si rendevano conto che vi erano sue reticenze di fondo che impedivano un percorso di recupero adeguato e, quindi, lo indirizzavano altrove, si era visto costretto a schiudere la porta a uno dei suoi terrori più grandi: lo psichiatra; quello che, quando tutto il resto era fallito, ricorreva alla terapia bruta dei farmaci e che, quindi, confermava la sua pazzia latente.
Il dottor Modo, però, a quella sua prima osservazione di certo non troppo educata, l'aveva contraddetto e bacchettato per i suoi pregiudizi con cui, però, sembrava abituato ad avere a che fare. Aveva poi aggiunto i gesti alle parole: non l'aveva mai trattato come un pazzo e, finora, tutto ciò che gli aveva prescritto era un blando ansiolitico, più per l'insonnia che altro.
Per poi prendere a scavare in lui con la stessa disinvoltura che avrebbe usato seduto al tavolino di un bar con un amico, strappandogli una confessione dopo l'altra e un frammento di vita alla volta, tra quelli che aveva sempre tenuto per sé. E lui, non sapeva se per qualche tattica terapeutica atta a costruire fiducia col proprio medico, o se per semplice, spontanea voglia di condivisione, si era esposto a sua volta, regalandogli qualche chicca su di sé, sul perché facesse quel lavoro, o semplicemente su cosa gli piacesse o meno.
"Potevamo essere colleghi, sa?" gli aveva detto una volta, quando Ricciardi era arrivato a parlargli del proprio lavoro di commissario. "Ho mollato patologia forense dopo un anno. Troppa morte, per i miei gusti."
Ricciardi aveva sorriso lieve, sia alla prospettiva bizzarra, ma affatto sgradevole, di avere un professionista acuto come il dottor Modo al fianco nelle indagini, sia alla sua avversione nel trattare la morte, che cozza così fragorosamente con la sua vita che ne è invasa.
"Non mi stupisce che abbia scelto una delle branche che più ha a che fare con i vivi, allora." Era scivolato senza volerlo nel tono un po' piatto su cui si assestava durante gli interrogatori. "Mi stupisce, però, che un cambiamento di rotta così drastico, da un opposto all'altro, sia del tutto spontaneo."
"Non è commissario per finta, allora," aveva ridacchiato lui, con un guizzo caldo negli occhi che, poi, si era fatto più tenue. "Mio padre lavorava nel RIS. Lavorava, appunto. Quando non c'è stato più, non c'era nessuno che mi obbligasse e ho fatto di testa mia."
Ricciardi aveva distolto lo sguardo, in imbarazzo.
"Mi dispiace, non..."
"Si figuri, è stato tanto tempo fa," aveva dissimulato lui, con un gesto noncurante della mano e un molleggiare di ricci brizzolati. "Però, stavamo parlando di lei, e di cosa ha portato lei a fare il commissario di polizia, mi pare," s'era poi premurato di aggiungere, di nuovo con un sorriso a marcargli le labbra. "A questa domanda non m'ha mai voluto rispondere con chiarezza."
Ricciardi aveva sorriso, schivo. E non aveva risposto nemmeno quella volta.
Si sorprende di ricordare così bene ogni loro chiacchierata, perché "visita" non la si poteva proprio chiamare e la frequenza con cui vi andava di propria sponte non era affatto in linea con la recalcitranza con cui aveva dovuto combattere in passato anche solo per costringersi a presenziare all'ennesimo appuntamento con questo o quello psicologo.
Il dottor Modo era riuscito ad aprirgli una finestra dentro, non sapeva nemmeno come, dalla quale affacciarsi per scrutare i suoi pensieri più reconditi; e l'aveva lasciata aperta anche per lui, che non era mai riuscito a guardarsi da fuori con tanta limpidezza.
Forse era proprio per quel trattamento alla pari, che non lo esentava, però, da rimbrotti e schiettezza quando necessario, che si era infine deciso a esporsi, a rivelare proprio al dottor Modo il segreto che portava chiuso a chiave nel petto sin da quando era ragazzino.
Sin da quando il primo fantasma era comparso nella sua vita.
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Il nome che ti darò (domani)
FanfictionUna raccolta di one shot/storie brevi su Ricciardi e Bruno, sia autonome che blandamente collegate alla storia principale, "La Ruota degli Angeli". Introspettivo, romantico, erotico, umoristico, slice of life, angst... insomma, di tutto un po' sui m...