31. Mente e cuore

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🌷
JANE

Avevo oltrepassato il limite.

La sottile linea che teneva la mia mente e il mio cuore separati, si era ingarbugliata fino a diventare un'unica matassa così pesante da lasciarsi trascinare giù, nel petto.

La razionalità si era indebolita e fatta influenzare da sentimenti inesplorati, e il peso di quegli stessi sentimenti aveva iniziato a gravarmi sulle spalle quella mattina, quando all'alba del nostro quinto e ultimo giorno a Boston, mi ero svegliata piacevolmente appagata e al caldo tra le braccia di Evren.

Non ero riuscita a non sorridere alzando il viso dal suo petto per poterlo osservare mentre dormiva, con le sue braccia a cingermi il corpo coperto da una delle sue magliette e lo sbuffo del suo respiro regolare e pesante a soffiarmi sulla fronte.

Cinque giorni e quattro notti a Boston, e quella mattina era la prima in cui Evren mi concedeva il privilegio del potermi svegliare con lui al mio fianco. Ci addormentavamo insieme dopo una profonda e sfiancante attività fisica, ma non ci risvegliavamo mai allo stesso modo.

Aprivo gli occhi alle otto del mattino per trovarlo già in cucina, fresco di doccia e intento a sistemare l'isola per la colazione. Dall'abbigliamento che tassativamente trovavo sul pavimento del bagno, avevo capito che impiegasse le prime luci dell'alba per andare a correre e allenarsi sul lungo mare.

Eppure, pur sapendo di non doverlo desiderare, non ero riuscita a negarmi la delusione in quei risvegli in solitaria, dove la sua parte del letto, pur odorando di lui, appariva fredda come l'inverno.

Ecco perché l'avevo capito in quel momento specifico.

Avevo compreso di aver oltrepassato il limite quando aveva dischiuso le palpebre per cogliermi in flagrante, sorridente e sognante con gli occhi a cuoricino.

Mi ero sentita fortunata per quella vista, una parte del mio cuore si era dichiarata debitrice nei confronti di Evren. Avevo amato quando le sue braccia mi avevano stretta con più forza, e avevo amato l'assurdo vuoto percepito nel non sentire più l'oppressione dei suoi abbracci mentre mi faceva distendere sotto di lui per darmi il primo buongiorno della settimana.

Continuavo a non tollerare l'incombenza del suo corpo a sovrastarmi durante il sesso, lui lo sapeva e manteneva la distanza che io stessa avevo stabilito. Ma tutto il resto, le sue attenzioni, i suoi baci e i suoi abbracci non recavano più alcun accenno d'allarme in me.

Mi ero abituata. Come se lo conoscessi da sempre.

E mentre lui si perdeva a guardarmi, io avevo pregato che anche quella volta non stesse tentando di leggere i miei pensieri attraverso il sorriso tirato sulle mie labbra, perché, anche se non avrebbe trovato altro che una mente svuotata, albeggiava in me il timore che lui potesse accorgersi del mio improvviso stato di turbamento e malessere generale.

Avevo paura di ciò che provavo per lui, tanto da non riuscire a definirlo.

L'asciarmi andare a quella routine fatta di sesso, abbracci e baci era stato un bene per ogni mio limite... ma, più di ogni altra cosa, era stato un enorme errore.

Dall'incendio si era tutto ingarbugliato senza che me ne fossi accorta. Evren era diventato la mia quotidianità, la presenza senza la quale non sarei riuscita ad andare avanti.

Osservandolo, quella mattina, mentre mi dedicava le sue attenzioni sfiorandomi tra le gambe, mi ero resa conto di quanto mi spaventasse il solo pensiero di dovermi allontanare da lui.

Ricercavo la sua approvazione, le sue mani, le sue labbra, i suoi tocchi, il suo sguardo sul mio viso e sul mio corpo in eterna adorazione. Cinque giorni, ventiquattrore su ventiquattro insieme gli erano stati sufficienti a imprimersi dentro la mia testa... permanentemente.

BLURRY SHOTSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora