32. Ossessione maniacale

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🌷
JANE

Prendi le tue cose e vattene. Adesso. O per te sarà la fine.

Mani intrecciate. Labbra e baci. La sua barba a sfregarsi sul mio viso. Il calore del suo corpo. Il suo profumo addosso. Le sue braccia a trattenermi sul suo letto. La voce roca a supplicarmi di non andarmene. Le sue dita a carezzarmi lo stomaco. I suoi polpastrelli freddi tra le mie cosce. Esma addormentata su quello stesso letto, proprio davanti a noi. Il piacere trattenuto in gola. Il mio sorriso. Il senso d'impotenza e la rassegnazione.

Gli avevo concesso due giorni in più rispetto ai cinque già trascorsi a Boston. Avevamo passato il tempo a guardare film Disney, proiettati sulla parete della camera da letto, con Esma a ridere e Salem a dormicchiare sulle mie gambe.

Gli avevo concesso un'intera settimana finché non ne avevo avuto abbastanza. Ero sgattaiolata via dall'appartamento di Evren in piena notte, avevo preso le cose che mi ero portata a Boston e gli avevo scritto un bigliettino che mi ero assicurata trovasse sopra al suo telefono. E poi me ne ero andata.

Me ne ero semplicemente andata.

Quei due giorni passati in casa di Evren si erano rivelati cruciali, perché il senso d'appartenenza legato a tutto ciò che riguardava lui non mi aveva abbandonata un solo istante. Mi spaventava da morire sentirmi così tanto parte di qualcosa, sapevo di stare bene con lui... ma ero satura, colma d'emozioni fino all'orlo.

Avevo iniziato a scendere le scale dello stabile e non ero riuscita a non paragonarmi a un vaso traboccante d'acqua. In quei giorni avevo raccolto al mio interno ogni goccia che Evren aveva da offrirmi, ma quando era arrivato il momento di immergerci i fiori, mi ero resa conto di non poter accogliere neanche un solo millimetro di gambo verde.

Traboccavo da tutte le parti. Ero satura d'affetto, attenzioni, gesti ai quali non ero abituata. E sapevo, internamente, che quei fiori erano destinati ad appassire.

Mi ero sentita meschina andandomene nel cuore della notte, ma nulla sarebbe stato paragonabile al sollievo provato dopo aver messo piede fuori dal portone del suo condominio. La libertà non aveva prezzo, e io non ero ancora disposta a barattarla per un comune sentimento.

Quando alle tre del mattino Ava aveva aperto la porta della sua stanza e mi aveva trovata lì, ferma all'ingesso di casa sua e avvolta dentro al cappotto con ancora lo zaino in spalla, dalla sua bocca non era uscita una sola domanda. Quella che ormai consideravo a tutti gli effetti la mia migliore amica mi aveva semplicemente osservata con preoccupazione e tirata a sé per stringermi in un abbraccio.

Anche in quel caso mi ero sentita bene come tra le braccia di Evren, ma in qualche assurdo modo per me era stato più semplice sentirsi parte di un'amicizia, che di un rapporto intimo tra due persone che si baciano occasionalmente senza una specifica ragione.

Tuttavia, il silenzio di Ava era durato ben poco, giusto il tempo di una doccia per lasciarmi scivolare addosso il profumo di Evren e lo sconforto per non essere riuscita a spingermi oltre i miei stessi limiti. Subito dopo aver varcato in uscita la soglia del bagno, me l'ero trovata davanti con due calici di vino bianco tra le mani e un enorme pacco di patatine.

Dirle di no era stato impossibile, tanto quanto lo era stato dirlo a Esma.

Così le avevo raccontato tutto, dall'arrivo a casa dei miei al ritorno a East Village, dove avevamo trovato Esma sul divano. Mi aveva ascoltata senza mai provare a interrompermi, era stato bello liberarmi e trovare conforto in quegli occhi azzurri, perché non mi aveva psicanalizzata da brava psicologa quale era, ma mi aveva ascoltata in silenzio come una vera amica.

L'unico argomento che non avevo preso era l'atteggiamento ambiguo di Evren, che io stessa non avevo notato immediatamente, ma soltanto quando mi aveva lasciata da sola con sua nipote. Le sue affermazioni mi avevano ferita più di quanto non avessi percepito all'istante, ma non lo avrei gettato in pasto ai lupi.

BLURRY SHOTSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora