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Non salutai nemmeno la mia famiglia, non me ne diede il tempo. 

Partimmo immediatamente, quale che fosse la nostra destinazione non mi era dato saperlo. L'ultima cosa che vidi della mia vecchia vita fu Satoshi che a piedi si mise a correre verso di noi e invocava il mio nome a gran voce.

Il samurai che era venuto a prendermi, lo stesso a cui mio padre mi aveva venduta, non fece una piega. Solo mi tenne stretta in una presa salda e forte sulla vita mentre in groppa al cavallo ci allontanavamo dal mio villaggio. 

Non piansi per aver appena perso la mia vita. Non piansi nemmeno per l'addio al mio amore. La mia attenzione era tutta concentrata sul paesaggio attorno a me. Anche ogni più piccolo filo d'erba volevo mi restasse dentro, in fotogrammi che nei tempi di nostalgia che avrei vissuto mi avrebbero riportato qui, per queste terre, queste distese di verde, a casa. 

Viaggiammo per tutto il giorno e gran parte della notte senza sosta. Ero stremata, stanca, scomoda, e non sentivo più le gambe. Ogni tanto mi voltavo di poco per guardare la figura del samurai e tutte le volte lo trovavo nella stessa posizione, con la stessa identica espressione a contornargli il volto. Non sembrava affatto risentire di quel viaggio, al contrario di me. 

Quasi mi gettai a terra non appena arrivammo a destinazione. Fuori era buio pesto e nonostante non sapessi che cosa aspettarmi da questo momento in poi, ero felice che ci eravamo fermati, finalmente. 

«Portatela nelle stalle.»

Di scatto mi voltai verso l'uomo a cui ora appartenevo ma egli non mi ricambiò affatto anzi, procedette in avanti e sparì dietro la porta di casa. 

Due uomini mi spinsero a seguirli e io non feci tante storie, dopotutto sentivo un grande bisogno di riposare. Camminammo fino al retro dell'abitazione fino a quando non arrivammo alle stalle. 

«Questa sarà la tua stanza per questa notte. Da domani sarà il signore a decidere.»

Mi lasciarono sola e io passai i successivi minuti a guardarmi attorno. Non c'era luce sufficiente a capire tuttavia riuscii a trovare una collinetta di paglia e mi ci sdraiai sopra. Avevo un gran desiderio di piangere, per la paura, per la tristezza, per la rabbia, per Satoshi, per me. Per tutto. Il sonno venne a bussare alla mia porta prima che comunque potessi farlo e chiudendo gli occhi scivolai, trasportata dalla stanchezza, nel riposo assoluto. 

Mi svegliai dopo qualche ora. O sarebbe più corretto dire che fui svegliata dopo qualche ora, quante non avrei saputo dire per l'esattezza, da una secchiata di acqua gelata che mi venne gettata addosso. 

Boccheggiai presa alla sprovvista, e quando alzai lo sguardo trovai lo sconosciuto samurai che mi fissava dall'alto. 

«Alzati.»

Lo assecondai anche se non del tutto sveglia, e non del tutto consapevole. Incontrai il suo sguardo severo; due iridi scure e intense che mettevano i brividi. La sua bellezza era sconvolgente, niente che potesse appartenere a un essere umano. 

Mi diede le spalle e con un lieve cenno mi invitò a seguirlo. 

Arrivammo al centro della stalla, mi diede ordine di fermarmi mentre lui si allontanò a recuperare qualcosa. Solo dopo mi sarei resa conto di quello che aveva tra le mani. 

«Apri le braccia.»

Un attimo dopo mi legò i polsi con due anelli di metallo legati a una catena che pendeva dal soffitto. Con le braccia sopra la testa cominciai in fretta a sentire fastidio alle mani, che presero a formicolare. 

«Io sono Takeda Wada, tuo signore e da oggi tuo padrone. Tu appartieni a me e a me soltanto. Sei una mia proprietà e come tale dovrai comportarti. Ciò che mi devi è lealtà, rispetto, e obbedienza. Assoluta obbedienza. Quando chiamo tu corri, quando parlo tu ascolti, quando ordino tu esegui. Fine. Nessuna parola lascerà la tua bocca, se non sarò io stesso ad autorizzarti a farlo. Vivrai con me, in questa casa. Avrai la tua stanza, ma quando te lo chiederò tu giacerai con me. Non potrai negarti né negarmi niente di conseguenza. Godrai comunque di tutto il rispetto che meriti all'interno e fuori da queste mura. Ti rivolgerai a me chiamandomi signore, e padrone quando godrò del tuo corpo e lo possiederò.»

E mentre parlava mi girava intorno come un falco fa con la sua piccola preda. Sa che non ha scampo eppure si diverte a spaventarla, a metterle ansia e pressione addosso. Così Takeda stava facendo con me. 

«Il tuo comportamento di ieri non è perdonabile senza un'adeguata punizione ed è quello che sto per fare.»

Takeda mi arrivò davanti e lo vidi estrarre dal kimono semplice ma raffinato che indossava un piccolo pugnale. 

La paura serpeggiò lungo il mio corpo e il cuore prese a battere come impazzito. 

Chiusi gli occhi perché ero terrorizzata da quello che poteva arrivare a farmi. Un paio di secondi dopo sentii il rumore di qualcosa che si lacerava, come uno strappo: aveva fatto a pezzi, stracciato la tunica che indossavo, l'unico indumento che avevo a coprirmi il corpo nudo. 

Trattenni il fiato per questo e per la lama che affilata avvicinò al mio collo. 

«Bellissima...è un vero peccato doverti punire anziché godere subito del tuo favoloso corpo.»

Non avevo mai pensato di avere un corpo favoloso, accettabile forse, ero consapevole di essere graziosa ma non sufficientemente aggraziata. 

Pertanto il complimento che mi rivolse mise a soqquadro il mio stomaco. 

Finalmente compresi cosa era andato a recuperare prima e che non avevo ancora decifrato: il samurai srotolò la frusta e la strisciò sul pavimento un paio di volte prima di sbatterla forte contro di esso facendo vibrare persino le pareti della stalla con l'eco che ne conseguì. 

«Sei pronta, ragazzina?»

E la prima frustata arrivò. 

Forte.

Letale. 

La concubina del Samurai Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora