4: Easy On My Eyes (Giorgia)

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Gennaio è arrivato.

Per fortuna che noi di quinto abbiamo già fatto lo stage, altrimenti ci saremmo morti di freddo insieme ai ragazzi di quarta. Mi dispiace per loro.
Adesso che siamo tornati a scuola, ricomincia la carrellata di verifiche e interrogazioni, e io già non ce la faccio più.
Come se non bastasse, continuano a riempirci di occasioni di orientamento, che non fanno altro che rallentare il tutto e accorciare i tempi. A metà mese verrà un'università, poi andremo in un'azienda (e menomale, considerando che non ci siamo mai andati in cinque anni), poi altre gite inutili proposte dalla professoressa di inglese, che continua a spingerci ad andare nei teatri e nei cinema a vedere cose che, onestamente, non ci serviranno a molto.
Ovviamente, se coinvolge noi, farà lo stesso anche con la classe di Dario.
In questo ultimo periodo, è l'unica persona che sembra capirmi; ci vediamo ogni ricreazione per parlare, o per ascoltare la “simulazione di interrogazione” dell'altro. È un momento difficile per tutti.

✣✣✣

Rieccomi, per la quinta volta in due anni, di fronte al Teatro dell'Opera.

Per carità, teatro bellissimo, ma sembra come se la professoressa attiri naturalmente tutti gli spettacoli e i balletti peggiori: e una volta i ballerini non sono coordinati, e un'altra è un'opera per bambini... Diciamo che la fortuna non ci assiste, ma forse è anche perché, con tutta la buona volontà e tutte le conoscenze che ti pare all'interno, quelli sono i meno costosi.

Dopo lo spettacolo, Dario mi ha chiesto se volessi uscire con lui. L'ultima volta che è successo, non potevo proprio accettare, ormai mi era venuta a prendere mia madre e non sono minimamente capace di inventarmi una scusa sul momento né ho il coraggio di chiederglielo. Anche perché mi immagino che si farebbe qualche idea strana.
Stavolta, gli ho detto di sì. In fondo, ci conosciamo sicuramente di più, e forse potremo andarcene in giro e parlare di ciò che ci pare indisturbati.
Dopo un casino per i posti, e dopo un'attesa interminabile, lo spettacolo inizia.

Noia mortale.

Se potessi, mi farei gli affari miei, ma la professoressa che ci ha accompagnato è seduta a poca distanza da me.

L'unica cosa buona di quello spettacolo è stata che è finalmente finito. Altro casino per uscire dal teatro senza perdere metà scuola, e siamo fuori.

La professoressa ci saluta, e vedo già tutti i miei compagni organizzarsi per conto loro: chi va con l'amico dello stesso Paese, chi in coppia, chi in quartetto. Volevo aspettare che se ne andassero tutti, ma Dario mi spaventa a morte chiedendomi se possiamo andarcene.
«Senti» inizio io «tu prova solo a farci beccare da chiunque in questa scuola, e non uscirò mai più con te. Intesi?»
Lo sguardo intimorito e stupito sugli occhi celesti del ragazzo che è affianco a me mi fanno capire che ha recepito il segnale.
L'intenzione era quella di camminare senza sembrare che stessimo andando dalla stessa parte e, in caso qualcuno ci avesse visto, dire che stavamo andando verso la fermata della metro. Giustificazione valida, no?

Una goccia mi cade in faccia.

Fa che non sia vero, per una volta che esco di casa e non faccio l'asociale.

Goccia dopo goccia, inizia a diluviare.

Grazie a Dio, Dario mi passa un ombrello aperto (di solito quella previdente sono io, ma non volevo pesi inutili, là dentro. Fortunata come sempre) che ci ripara.
Il piano era di andare a mangiare in un ristorantino vegano non troppo distante dal teatro perché, beh, una delle mie condizioni era quella di farmi portare a provare quel tipo di cucina, giusto per il gusto di farlo. Anche se, in realtà, mi basta avere del cibo sotto al naso. Ma questi sono dettagli.

Dopo una breve camminata in cui prendiamo la peggio acqua, riusciamo a raggiungerlo, e mentre aspettiamo di mangiare, cominciamo a discutere della noia mortale che è stato lo spettacolo di stamattina. Entrambi condividiamo il fatto che, se proprio doveva portarci a teatro, almeno doveva scegliere qualcosa di buono e non per bambini.
«Certo, deve essere complicato» dice lui «insomma, con tutta quella gente che ti fissa, e poi scopri che lo stanno odiando. Io non lo farei mai.»
Non posso fare a meno che concordare.
Non so come me ne sia uscita, ma mi viene spontaneo da chiedere:
«E che faresti, allora? Sentiamo»

Insomma, penso sia importante saperlo... No?

«Ah, beh, io in realtà non penso di voler continuare con quello che sto studiando ora» confessa lui «sarebbe figo fare il maestro. Non lo so, mi piace stare coi bambini, e fare quel progetto lo scorso anno me l'ha dimostrato. E poi, vorrei insegnargli qualcosa di utile. E tu?»
Devo dire che è un po' inaspettata, come risposta. E sentirlo (e vederlo) parlare di questo mi fa tenerezza. Però l'imbarazzo conseguente alla mia coscienza del mio, di sogno, prende il sopravvento.

Ogni volta, la gente mi chiede cosa voglio fare dopo il diploma e, beh, tutti fanno una faccia strana quando glielo dico. Non so perché, forse pensano che sia sprecata, in un campo simile. Anzi, in un campo e basta.
«Voglio creare la mia azienda agricola. Sembra una cosa idiota ma, beh, mi piace stare in mezzo alla terra e veder crescere un seme, finché non diventa un albero.
Quando ero piccola, volevo fare la cuoca. Però i miei genitori mi hanno detto che avrebbero preferito che non frequentarsi l'alberghiero e mi son ritrovata qui. Poi ho pensato “ma perché, invece, non creare la mia pasticceria (sì, poi ho cambiato idea, da cuoco del ristorante a pasticcere)?” E ora sono qua» dico infine, facendo un mezzo sorriso.
Non so cosa abbia detto di strano, ma mi sta guardando con un sorriso da ebete in faccia. Non è la prima volta che lo fa.
Poi ammette che è una delle poche volte in cui “mi sciolgo”, e mi scappa una risatina un po' imbarazzata.

Arriva il nostro pranzo, e continuiamo a parlare del più e del meno.

Era da tanto tempo, che non mi sentivo così bene.

Ogni volta che dico qualcosa, non fa che supportarmi e non riesco proprio a non rilassarmi.
Dopo il pranzo, il meteo fa saltare il piano di farsi un giro in centro, quindi torniamo a casa.
La metro è affollata come sempre, e con gli ombrelli sgocciolanti è pure peggio. Per fortuna, poche fermate, e andiamo a fare il cambio di metro.
Questa è meno affollata dell'altra (al capolinea ci sono meno persone ad aspettarla), quindi posso pure prendermela comoda. Stavo per mettermi della musica da ascoltare, ma sono interrotta da Dario, che mi chiede se ho intenzione di “condividere”.
Gli passo una cuffietta, e faccio partire un album, mentre guardiamo la metro procedere speditamente.

She was all that I could see
She was all that was in front of me

Try to climb the mountain peaks
What if I only ever reach the sea?
Would you stay awake and wait for me?

Hold me under until I see her light
Take it easy on my eyes
Take it easy on my eyes

Sit and wonder now if I'm doing fine
Hold me close, and it'll be alright
Take it easy on my eyes
Take it easy on my eyes

La metro esce dalla galleria, per tornare “in superficie”.
Ciò significa che a breve, scenderò.
Dario deve aspettare un altro po', prima di poterlo fare.
Scrivo dove sono a mia madre, per poi rimettere il telefono in tasca.

Hey, hey
Hey, oh-oh-oh, ooh-ooh
Oh, oh, oh, oh
Oh, oh-oh

Hold me under until I see her light
Take it easy on my eyes
Take it easy on my eyes

Sit and wonder now if I'm doing fine
Hold me close, and it'll be alright
Take it easy on my eyes
Take it easy on my eyes

Manca poco.
Alla prossima scendo.

Stacco a malincuore la musica, e rimetto in tasca le cuffiette.
Non so se sono le uscite didattiche a farmi questo effetto (o forse le uscite e basta), ma mi giro verso Dario, e lo saluto. Ero partita per farlo nel più normale dei modi, però gli do un bacio sulla guancia, per poi correre verso la porta. Lui spalanca gli occhi, e sorride in modo idiota, mentre si tocca la guancia con la mano.

E fugge via, con la metro.

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