CAPITOLO XIX - Capitolo Diciannove (Parte Prima)

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Silvia ruzzolò malamente a terra, sbucciandosi un gomito, mentre Catherine era magicamente tutta intera, scura in viso.
«Ma siamo a casa!» esclamò la minore d'età ma più grande in altezza.
Silvia si rimise in piedi sistemandosi gli occhiali sul naso; si guardò attorno e, nelle prime luci dell'alba, intravide le sagome di un parchetto di periferia, un ex asilo nido abbandonato ed un imponente condominio vecchio più di mezzo secolo. «No...» sospirò amareggiata. «Abbiamo sbagliato qualcosa?»
Catherine tacque. Assottigliò gli occhi. «Facciamoci un giro» disse seria.
Attraversarono e presero a camminare verso la farmacia, verso est, ma qualcosa, nell'aria, incuriosiva Catherine. O meglio: la convinceva a tal punto da farle pensare che fossero proprio nel posto giusto, nonostante le apparenze. Ma perché proprio tra quelle vie dove erano cresciute loro due?

«Avremo fatto circa un paio di chilometri e io ancora non ho notato nulla di diverso.» Silvia camminava dietro Catherine cercando di tener duro per non addormentarsi tra un passo e l'altro.
«Sono sicura che il dettaglio che cambierà tutto arriverà tra poco, sis» disse Catherine. «Abbi fede.»
La riccia sorrise e guardò a terra. «Va bene, Cathy.»
Poi Catherine si fermò, incredula. «Di certo questo è un enorme dettaglio!»
«Oh, mio Dio!» Ecco la fede che prima non aveva! Più o meno... Okay, più meno che più...
Ma ora vi spiego: laddove, nel loro universo, sorgeva un'umile eppur meravigliosa Esselunga, vi era, qui, un lussuoso... ecomostro. Mura in rovina soffocate qua e là da edera e altri rampicanti, nidi di rondini e altri volatili negli angoli più sicuri e al riparo, graffiti che mettevano i brividi per la loro bruttezza che ricoprivano veramente tutto.
«Trovami qualcosa di più triste in questo universo e ti pago la cena per una settimana!»
Catherine sospirò. «Vorrà dire che si dividerà come al solito» scherzò.

La mia testa che scoppia. Chiudo gli occhi un attimo, tanto oggi sarà domenica. O forse è giovedì? Be', chi ci fa più caso, ormai? Di certo non io. Mi ricordo solo adesso che mi ero fatta una tazza di tè, infatti ora è freddo. Dannazione! Stiro la schiena e mi alzo per scaldare il brodaglio dolce nel microonde, se poi sarà bollente, lascerò che si intiepidisca sul tavolo. Ma questa volta metterò la tazza più vicina a me, così non la dimentico.
No, non mi reggo in piedi, anche questa volta ho tirato l'alba, non è possibile.
Chissà se anche Stephen King ha orari improponibili come i miei?
Spengo il computer, poi andrò a prendere l'alluminio per coprire la mia tazza di Ed Sheeran, dritta in bagno e poi a letto.
Aspetta...
Sì, certo, oggi è lunedì.

Maledettissima sveglia! Mi sembrava di averla spenta, invece l'avevo solo posticipata. Però se ora tiro via le coperte, congelo. Starò qui ancora qualche minuto, mi scoprirò piano piano così che il mio corpo si abituerà grado per grado alla temperatura della casa.
Ecco, ora ho la pancia scoperta. È quasi fatta. Però io, quasi quasi, mi ricoprirei di nuovo fino al naso, così, per sport...
Squilla il telefono.
Ovviamente.
Guardo lo schermo, è mio padre. Lo lascio squillare finché non cade la linea, poi gli dirò che non l'ho sentito. Sicuramente avrà da ridire riguardo il mio stile di vita. È stata una fortuna che loro si siano voluti trasferire. Certo, pago loro l'affitto, ma sono libera di essere me stessa e finalmente posso scrivere tutta la notte senza che loro mi dicano nulla. D'altronde è anche il mio lavoro e pure il mio hobby. Come lo svolgo a loro non deve interessare, ormai sono adulta.

Colazione fatta, ora chiudo le finestre, mi do una lavata e mi rimetto all'opera. Per tornare verso la camera, passo davanti ad alcune foto di famiglia. È ancora tutto come quando c'erano qui i miei genitori, solo più disordinato. I mobili colmi di buste e fatture di bollette pagate o ancora da pagare, lasciate lì come promemoria. Questo lo devo mettere a posto, questo è da pagare, ma tanto mi ricordo tutto. Sì, come l'appuntamento dalla parrucchiera di due settimane fa. Al quale non sono andata e ho inventato una scusa: "Non sto bene, ti richiamo io!" le avevo detto, ma non l'ho più richiamata ed i miei ricci sono sempre più disperati.
Mi sistemo meglio gli occhiali sul naso e chiudo le finestre. Accendo il mio computer, poco distante sulla scrivania che, un tempo, era di mio padre. È quasi mezzogiorno, devo sbrigarmi se voglio finire l'articolo prima di sera.
E invece apro il file del capitolo diciannove di Not Natural.

Di ritorno verso il punto in cui il Fagiolo Magico le aveva portate, Catherine e Silvia si fermarono nell'unica panetteria che incontrarono per strada. La commessa dai lunghi capelli ricci raccolti in una cipolla disordinata le accolse con un grande sorriso.
«Ciao, vorremmo delle brioches!»
«Certo, come le volete?» chiese la donna dietro il bancone colmo di pizze e focacce.
«Pistacchio?»
«Sì, ce l'ho! L'altra?»
Catherine guardò il vassoio di cornetti con occhi famelici. Da quante ore non mangiavano? «E se invece io ti chiedessi un trancio di margherita?»
La commessa sorrise e prese un sacchetto per il trancio di pizza come voleva Catherine e pesò; digitò infine il prezzo della brioche di Silvia in cassa aggiungendo poi quello della pizza.
Le due cacciatrici pagarono, salutarono e uscirono dalla panetteria.
Il sole in alto nel cielo fece loro intuire che potevano essere circa le dieci del mattino.
«Ho come l'impressione che qui il tempo scorra in maniera diversa» disse Catherine addentando la sua pizza.
«In che senso?»
«Siamo arrivate qui che era l'alba e in un batter d'occhio siamo già a metà mattinata. Non è strano?»
Silvia fece spallucce. «
It is what it is
Catherine ghignò. «Non è il momento di citare
Sherlock» disse sorridendo.
Superarono la farmacia di prima, attraversarono e rieccole laddove quel fagiolo magico le aveva portate poco prima. Avevano già finito di mangiare quando Silvia cercò d'istinto tra i tasti del citofono di quel grande condominio
Morelli, il suo cognome, ma non lo trovò.
«Be', suona quello su cui dovrebbe esserci il tuo cognome, allora! Sono proprio curiosa!»
E così fece: Silvia premette il polpastrello e attese.

Squilla di nuovo il telefono; guardo lo schermo ed è nero. Ma come? Allora perché ha squillato? No, un momento. Ah! Era il citofono!
Mi alzo dalla sedia e vado dritta in corridoio, quasi trascinando le pantofole, il file lasciato aperto sulla parte più strana della mia storia, il suo punto forte, il collegamento ritenuto da me sacro tra la fanfiction e la serie tv e la realtà e l'altra realtà e omammamiachecasino!
Chi potrà mai essere?
Chi è che rompe le scatole a quest'ora?
Alzo la cornetta del citofono e chiedo: «Chi è?»
Dall'altra parte del ricevitore si sente solo un lontano vociare ed il rombo di una macchina, per cui rimetto a posto la cornetta e torno in camera a scrivere un po' stizzita. Maledetti ragazzini. Non hanno mai niente di meglio da fare se non rompere le scatole.

Catherine e Silvia rimasero shockate.
«Sis» sussurrò Catherine. «Aveva la tua voce!»
Ma Silvia ci credeva poco, poteva essere una semplice casualità. Controllò che la targhetta fosse quella giusta. Non vi era scritto Famiglia Morelli, ma Semplici Marilena, tuttavia era certa che lì in quel punto sarebbe dovuto esserci il suo nome, non quello di un'altra.
In quel medesimo istante, proprio mentre Silvia stava per premere nuovamente lo stesso tasto, una signora, da lontano, si avvicinava a loro a gran passo ed aprì il portone.
Le due cacciatrici, approfittando di quella piccola fortuna, entrarono.
«E ora?» Catherine riconosceva quel piccolo spazio echeggiante e lugubre, era uguale a quello che per loro era l'originale.
«Sinistra, scala F, terzo piano» disse Silvia. Camminò lentamente verso l'estremo opposto dell'area in cui sostavano, il cortile condominiale composto di ghiaia e macchine non autorizzate a stare lì. «È tutto così stranamente uguale e diverso allo stesso tempo, Cathy.»
«In che senso?»
Silvia alzò un arto e indicò avanti a sé. «Lì dovrebbe esserci la casetta delle pattumiere con un affresco del Cristo Re, ma non c'è l'affresco. Vicino dovrebbero esserci un pino e altri due alberi a coprire il giardino con gli stendini, invece c'è solo una vecchia altalena. E il mio balcone...» Silvia cercò in tutti i modi un aggettivo adatto al suo pensiero e l'unico che trovò fu: «Fa schifo.» E, in effetti, non aveva tutti i torti: vernice che cadeva a pezzi, nessuna tenda o sedia o qualsiasi oggetto all'esterno che facesse pensare ad un utilizzo di quell'area dell'appartamento.
«Speriamo di non trovare in quella casa una mia versione più disperata e strana di me» proseguì la maggiore incamminandosi nuovamente.

Di nuovo qualcuno che rompeva le scatole, ma questa volta era il campanello. Il suono echeggiò per tutta la casa. Volevo sprofondare nella sedia. Forse erano i miei genitori? Avevano ancora le chiavi dell'appartamento, tutto sommato.
Mi trascinai malvolentieri fino al corridoio e poi fino alla porta di casa, un percorso di sì e no quindici metri, e sentii il cuore pesarmi nel petto. Non un'altra volta, pensai; non volevo che i miei genitori si intromettessero nella mia vita, non più.
Aprii la porta con gli occhi chiusi, sapendo già di dover litigare con qualcuno, con mia madre, tuttavia mi si gelò il sangue nelle vene quando vidi Cathy.
Cathy e me.
Un'altra me.

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