Capitolo 12

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Una volta uscito dall'edificio, tirai su il cappuccio del giaccone e sgusciai via, accelerando il passo fino a correre diretto a casa senza mai fermarmi, come se i miei piedi avessero deciso da soli.

L'acqua scintillava nel fiume Avon, lungo il ciglio della strada coperto da alberi a mo' di ombrello, le cui foglie scendevano con grazia fino a terra.

Dopo mezz'ora di cammino, una volta arrivato, mi misi a guardare fuori dalla finestra della mia stanza.

In strada, alcune automobili avevano appena acceso i fari. Il chiarore lattiginoso dei lampioni mi mostrava alcune cornacchie appollaiate sui fili della corrente, gracchiando come se discutessero animatamente, rompendo il silenzio della sera con il loro verso rauco.

In cielo, uno stormo di uccelli volava lungo il confine tra il Bellum e l'Urbe. 

Mi sedetti alla scrivania. Non potei fare a meno di pensare a quei momenti nello studio del dottor Wallace. La sua voce risuonava ancora nelle mie orecchie: "Ti servirà del tempo." 

"Tempo?" avevo risposto, confuso. Una parte di me avrebbe voluto acconsentire, dire semplicemente: "D'accordo." Ma era la mia parte più sincera a prevalere, quella che non poteva mentire.

"Se i tuoi progressi andranno nella giusta direzione... beh, sai cosa intendo." Si era fermato un attimo, poi aveva aggiunto: "E credimi, voglio che tu sappia che vedo dei miglioramenti."

Una parte di me avrebbe voluto rispondergli con un semplice "sì, forse",  tanto per chiudere la conversazione. Ma non potevo. Nonostante i suoi incoraggiamenti, i miei dubbi erano ormai troppo radicati, e la decisione di smettere, non certo per carenza d'impegno, era già stata presa.

Il mio pensiero fu interrotto dai versi delle cornacchie. Mi resi conto che stavo parlando fra me come un matto.

Anche dopo aver lasciato le sedute, la mia convinzione si era rafforzata: nulla di ciò che il dottore avrebbe potuto offrirmi avrebbe risolto il mistero della morte di mamma e papà. Era quello il vero cuore del mio malessere. Per questo avevo deciso di interrompere gli incontri. Non solo non alleviavano il dolore, ma sembravano amplificare il vuoto che sentivo dentro. Ogni volta che uscivo dal Consultorio, mi ritrovavo faccia a faccia con una domanda che andava oltre il semplice trauma.

La ricerca della verità sulla morte dei miei genitori era diventata un'ossessione, e convivere con quel pensiero era sempre più difficile. Pensai di chiamare Emily, sperando che parlarne potesse alleviare, anche solo di poco, il peso che mi opprimeva. Ma subito mi assalì un dubbio, lo stesso che provavo durante gli incontri con il dottor Wallace: e se parlarne mi avesse fatto sentire ridicolo?

Rimasi lì, con il cellulare in mano, consapevole che quella fosse una disperata richiesta d'aiuto. La nostra ultima conversazione mi tornò in mente: le parole non dette di Emily, i suoi sguardi carichi di significato, il modo in cui sembrava volermi dire qualcosa di importante. In quel momento, mi resi conto che nonostante la distanza fisica, Emily era l'unica a cui avrei potuto rivolgermi.

Ma all'ultimo, decisi di non chiamarla. Anche se era lì, a pochi istanti di distanza, collegata da quella linea telefonica, in quel periodo mi sentivo incredibilmente lontano, come se vivessi in un altro mondo, intrappolato nei miei pensieri e nei miei dubbi.

Sentivo di dover affrontare quel mistero da solo. E, in ogni caso, coinvolgerla sarebbe stato ingiusto, soprattutto dopo quell'episodio, quando mi aveva lasciato così poche spiegazioni. Dopotutto, ci eravamo visti solo un'altra volta, e in quell'occasione avevo cercato di chiederle qualcosa a riguardo, ma anche in quel frangente aveva preferito cambiare discorso, allontanando ogni possibilità di chiarimento.

DOMINIO - È tempo che riavvolga il nastro dei passiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora