Capitolo 3

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Marlene

A volte mi chiedo come sarebbe stata la mia vita se le cose fossero andate diversamente. Se mia madre fosse rimasta. Se mio padre non fosse quello che è diventato. Se avessi avuto la possibilità di essere una ragazzina normale. Ma forse non sono mai stata destinata a quella normalità.

Ho imparato presto che chiedere aiuto è un segno di debolezza. O almeno, è così che mi è sempre sembrato.

Quando tua madre se ne va e tuo padre non fa altro che affogare i suoi problemi nell'alcol, non ti resta molto da fare. Devi solo stringere i denti, perché se non lo fai tu, nessun altro lo farà per te.

Le persone mi dicono spesso che sono "forte". "Sei forte, Marlene", come se fosse un complimento.

Ma nessuno sa davvero cosa significhi portarsi addosso questo peso. Nessuno sa che la mia forza non è una scelta, è una condanna.

Non posso permettermi di crollare, non con due fratelli che contano su di me per essere una madre, una sorella e tutto quello che non possono trovare altrove. Nessuno si rende conto di quanto sia pesante sorridere quando dentro di te c'è solo vuoto.

A volte, quando metto a letto i miei fratelli, li guardo e mi chiedo se stanno crescendo come dovrebbero. Li amo più di ogni altra cosa, ma come posso essere abbastanza per loro? Come posso essere all'altezza di quello di cui hanno bisogno quando nemmeno io so chi sono davvero? Nessuno mi ha insegnato ad essere adulta, ad essere responsabile.

L'ho imparato da sola, ogni volta che mio padre tornava a casa ubriaco e dovevo nascondere loro l'orrore di quel che accadeva.

Per poi prendere io tutte le botte che voleva dare, anche perché in qualche modo o con qualcuno lui doveva sfogarsi.

L'ho imparato quando dovevo asciugare le lacrime dei miei fratellini, inventando storie per farli addormentare, mentre io avevo il cuore a pezzi.

La scuola? Beh, era solo una formalità. Ci andavo, certo, ma era più un modo per fuggire, anche solo per qualche ora. Nessuno lì sapeva davvero cosa succedeva a casa mia. Nessuno si immagina cosa significhi vivere con la paura costante che tuo padre possa perdere il controllo.

Cerco di mantenermi distante, di non permettere a nessuno di avvicinarsi troppo. Ho sviluppato questa capacità di mascherare tutto con il sarcasmo, di far sembrare che nulla mi tocchi. È il mio scudo, la mia armatura.

Il college? è un mio sogno, ma un idea che ormai ho abbandonato. Non posso permettermelo.

Ogni tanto, mi chiedo cosa significhi avere una vita normale. Uscire con gli amici senza dover costantemente guardare l'orologio, preoccupata per quello che potrebbe accadere a casa. O magari anche solo avere il tempo di pensare a me stessa, di capire cosa voglio davvero, chi sono oltre al ruolo di "sorella maggiore" o "figlia problematica". Ma non posso permettermi di pensare a queste cose. Se cominciassi, mi spezzerei. E io non posso spezzarmi. Non ora.

Il mio lavoro? Non è neanche un lavoro, in realtà. È solo un altro modo per mettere insieme i pezzi.

Lavoro al minimarket del quartiere, il tipo di posto dove le persone comprano birra e sigarette alle due del mattino, il tipo di posto che puzza di stantio e di disperazione. Lì mi sento invisibile, ed è quasi un sollievo. Nessuno si aspetta nulla da me, nessuno mi guarda con pietà. Posso essere solo Marlene, la ragazza dietro il bancone che non ha tempo per le chiacchiere.

E poi c'è mio padre. Una volta era diverso. Ricordo vagamente un uomo che sorrideva, che mi portava al parco. Ma quei ricordi sono così lontani che a volte mi chiedo se siano reali o solo invenzioni della mia mente. Ora, lui è solo un'ombra. Una presenza ingombrante che si aggira per casa, una bottiglia sempre stretta in mano, e gli occhi vuoti, persi in un mondo che non è più il nostro.

GHOST'S GAMEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora