Capitolo 2

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ARYA

Mi sveglio con il suono incessante della sveglia che mi rimbomba nella testa.

La serata di ieri è stata tutt'altro che ordinaria. Quella che doveva essere una tranquilla uscita tra amiche si è trasformata in qualcosa di inaspettato.

Sono diventata la testimone oculare di un'aggressione.

E non una rissa qualunque, ma la furia di Dylan Torres in persona.

Poche persone osano mettersi sulla sua strada, e nessuna di loro ne esce mai illesa.

L'ansia e la paura non mi hanno lasciato dormire per tutta la notte, e ora mi ritrovo con un mal di testa terribile, pronta -si fa per dire- ad affrontare il mio primo giorno di lavoro.

Non è proprio il massimo iniziare con pochissime ore di sonno, ma non sono stata io a decidere che la serata prendesse una piega così assurda.

Con tutta la forza che riesco a raccogliere, mi alzo dal letto e mi trascino in bagno.

Lo spettacolo che mi trovo davanti allo specchio è desolante: i capelli pieni di nodi, le occhiaie che mi circondano gli occhi come quelle di un panda, e una carnagione bianca cadaverica.

Mi ci vogliono almeno dieci minuti per domare il disastro che ho in testa, e un po' di correttore e mascara per far apparire il mio viso almeno decente.

Scendo le scale e arrivo in cucina, dove mamma sta preparando la colazione con quello che abbiamo a disposizione.

«Buongiorno, tesoro. Ieri sera sei rientrata tardi, eh» mi accoglie con il suo solito sorriso dolce.

Mi siedo sullo sgabello e sorseggio il mio caffè. «Sì, è stata una serata... particolare» le rispondo, cercando di sembrare rilassata.

Mamma si gira, preoccupata, e posa il mestolo con cui stava girando le mie uova strapazzate.

«Arya Bennet, spero che tu e le tue amiche non abbiate combinato qualche guaio» mi ammonisce con tono serio, puntandomi contro il dito come solo lei sa fare.

Sbuffo, alzando gli occhi al cielo. «Mamma, tranquilla. Ero con Marlene.»

È incredibile come il nome di Marlene riesca sempre a rassicurarla, anche se, ironia della sorte, lei è probabilmente la più inaffidabile del gruppo.

Ma a quanto pare, oggi la mia fortuna non è dalla mia parte.

«Questo mi tranquillizza un po', ma quando siete tutte insieme non siete certo delle sante» continua, ricominciando con il solito monologo che mi ripete da anni.

«Mamma, per favore, non è giornata» la fermo subito, non avendo né la forza né la voglia di ascoltare.

Capisco la sua preoccupazione. Non vuole che finisca nei guai, non vuole che faccia gli stessi errori che ha fatto lei.

Da quando sono piccola, mia madre mi ha insegnato che l'indipendenza è fondamentale.

La sua lezione più importante è stata: non dipendere mai da nessuno, né economicamente né emotivamente.

Essere una donna autonoma, completa.

Le sarò sempre grata per questa mentalità, perché so che desidera il meglio per me. Eppure, a volte, il suo atteggiamento iperprotettivo mi soffoca, facendomi sentire intrappolata, come se non potessi mai davvero essere libera.

Le do un bacio sulla guancia prima di uscire, mentre lei riordina la cucina. Oggi devo anche prendere l'autobus, visto che la macchina serve a lei.

Quindi, un viaggio che in auto durerebbe dieci minuti si trasforma in una traversata di quarantacinque.

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