9. Squadra - Mujeog

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L'eccitazione per la battaglia imminente fermentava nell'accampamento. Uomini e donne in gonne da battaglia e armature di cuoio borchiato erano riuniti in piccoli gruppi, intenti ad affilare le lame o fare scorta di frecce, e rivolsero a Mujeog un cenno del capo mentre avanzava tra le tende. La terra era ancora morbida sotto i suoi piedi, l'odore di umidità così intenso da infastidirlo, e la cosa peggiore era il cielo gonfio di nubi nerastre che minacciavano un altro temporale. I ruggiti dei tuoni che si udivano di tanto in tanto erano ancora distanti, ma di certo l'ira del dio Yildrült si sarebbe scatenata durante lo scontro.

Odiava combattere sotto la pioggia. L'acqua ingolfava le vesti, appannava la vista e soffocava i suoni, e in meno di un'ora avrebbe reso il campo di battaglia una poltiglia fangosa. Avrebbe rispedito in cielo ogni singola goccia se avesse potuto farlo, ma aveva ancora difficoltà a spingere via qualcosa con il suo Naru – sempre che il dono di Yerükmeden glielo consentisse. Aumentare o diminuire la forza di gravità erano un conto, ma invertirla? Nessun allenamento a riguardo aveva ancora dato frutti.

Mujeog concluse il giro e tornò alla sua tenda, dove Haşoram lo attendeva fuori dall'ingresso. Suo fratello spiccava nel gruppo che lo accerchiava, così alto da sovrastare i suoi compagni, il fisico massiccio protetto da un'armatura tinta di nero. Aveva raccolto lunghi capelli castani n una crocchia alta, scoprendo la parte rasata sui lati e sulla nuca come andava di moda - Mujeog si rifiutava di tagliare i suoi, che raccolti in una coda gli sfioravano appena il collo - e aveva contornato gli occhi di nero, proseguendo le pitture di guerra in linee sottili fino alle orecchie e poi in piccoli cerchi sulla fronte. Mujeog avrebbe dovuto imitarne lo schema, ogni coppia di kāowak li aveva abbinati, ma era anche un Dotai e l'unico segno che portava era una spessa linea nera sul naso, simbolo del Dio della terra, Yerükmeden. E il kajal sulle palpebre, suo malgrado; non era fatto per i lavori di precisione, ma suo padre insisteva che in battaglia dovessero dare agli occhi una forma appropriata. Non aveva ragionato sul fatto che i suoi figli avrebbero potuto ereditare quella sottile e allungata della madre, quando aveva sposato una jiyana?

«I guerrieri sono pronti» disse Haşoram. Le labbra si distesero sopra la barba corta che seguiva la linea della mandibola, senza baffi. Era ridicolo, ma anche quello andava di moda. «Tu lo sei?»

«Sono sempre pronto a combattere.»

«E a parlare?»

Mujeog grugnì in una smorfia. «Perché cazzo devo tenerlo io, il discorso? Siamo stati promossi insieme, siamo entrambi comandanti, e la parte noiosa me la devo beccare io. Sei tu quello bravo con le parole. Sei il fottuto erede, dovresti farlo tu!»

«Anche tu sei un erede.»

«Bah, il secondo non conta.»

Haşoram rise e gli posò entrambe le mani sulle spalle, stringendole con vigore. «Non è un erede che serve adesso, che sia primo o secondo. Hanno bisogno del figlio di Yerükmeden. Hanno bisogno di te

Mujeog fissò a lungo quegli occhi rossi come i suoi, e in qualche modo più densi. Saggi. Era sempre riuscito a comprendere con facilità concetti che a lui continuavano a sfuggire.

Il figlio di Yerükmeden... I suoi territori erano lungo la costa a sud, che motivo aveva di aiutare loro? Era Zefeji la patrona del suo clan, dea della strategia, perché non era stata lei a mandare una sua incarnazione? Mujeog era fiero del suo Naru, ne era grato, però non capiva. Aveva persino sentito di Dotai nel clan sbagliato, costretti a combattere coloro che veneravano la divinità che si erano incarnate in loro, e nessuno sapeva spiegare il perché. Gli Dèi erano davvero capricciosi. Dov'era il limite della loro protezione? E quello dell'adorazione? Il suo clan credeva anche nel Dio delle bestie Caşiliğ, eppure quel giorno si sarebbero scontrati con chi lo venerava come patrono. E che dire dei figli degli Dèi che nascevano fuori dai confini di May Yava, tra gente che neppure credeva in loro? Per fortuna era suo fratello quello bravo a pensare, perché tutti quei ragionamenti gli facevano venire il mal di testa.

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