Capitolo 4

3 2 0
                                    

6 Giugno 2009 – Ospedale di Salerno
Ore 20.00
Beep... beep...
Apro gli occhi, la vista è confusa, ho un'atroce fitta alla
tempia, il dolore si dipana da un orecchio all'altro
giungendo fino ai denti, ho sentito delle voci e udito il
suono ripetitivo di un macchinario; guardo fisso in alto,
verso il soffitto: è bianco con dei quadretti in fibra
minerale microforati, tenuti insieme da una struttura
metallica.
C'è una plafoniera mezza fulminata con due neon: uno
funziona, l'altro continua ad andare a intermittenza,
come i miei pensieri.
Rimango con la vista fissa sul soffitto; più passa il
tempo e più diventa più chiaro, limpido, luminoso. Il
bianco intravisto prima, man mano che focalizzo,
diventa giallino, in certe zone anche grigio plumbeo.
Dove mi trovo?
Prima lo penso diverse volte e alla fine, con un filo di
voce, lo sussurro.
Beep... beep...
"Signor Santiago? Può sentirmi? Sono Paolo, il suo
infermiere, voi siete caduto... Ve lo ricordate?"
Alle mie orecchie giunge la voce di un uomo dal forte
accento campano, e anche se sono ancora
completamente stordito dal frastuono che c'è nella mia
testa, mi viene da ridere.
"Voi?", gli dico sorridendo.
"Sè scetat!"
, esclama Paolo non appena lo fisso.
È un bel ragazzotto biondo con un pizzetto degno di
D'Artagnan, il famoso Moschettiere francese.
Mi sento sbattere sulla spalla, mi giro con la velocità di
un bradipo e vedo Greta, ancora vestita da sposa, che
mi guarda con commiserazione, si volta e si allontana
uscendo dalla stanza. Vedo che fa cadere il bouquet sul
pavimento senza proferire parola, il che mi preoccupa
più del mio mal di testa.
Mi viene in mente che quella sera mi stavo per sposare,
ad Atrani... Ehm no... oddio, come si chiama... La
mente è confusa, ma sì, dai, Amalfi, cazzo!
Mi sollevo dal letto e una fitta mi pervade il capo e mi
fa crollare si nuovo sul materasso. Paolo mi sta
guardando e mi dice di stare tranquillo.
Il mio vestito da sposo è pieno di sangue. Sono riuscito
a rovinare la cerimonia di mia moglie, quella tanto
desiderata, nella chiesa dei sogni... Mi rimetto giù e mi
assopisco ancora.
Non so quanto ho dormito, forse ore, forse un attimo.
In ospedale ogni venti o trenta minuti passa qualcuno a
svegliarti per svariati motivi; la temperatura, la
medicina, la visita, le pulizie, i parenti e così via... Non
si riposa mai.
Guardo alla mia destra sul tavolino, hanno lasciato la
mia cena divisa in varie scatoline colorate e ho una gran
fame. Mi tiro su, prendo il vassoio e me lo avvicino.
Nella prima scatola rossa con il coperchio di plastica
bianco trovo uno stracchino, guardo la data di scadenza
– vizio che ho da sempre – e mi accorgo, dopo diversi
percorsi mentali per focalizzare che giorno è oggi, che
è scaduto da qualche giorno.
Cerco di risollevare l'umore con la seconda scatola
gialla, la apro con veemenza, è calda.
C'è dentro un brodino di verdure che mi si rovescia
tutto addosso, così il mio vestito insanguinato ora è
anche bagnato e macchiato d'olio.
Ma perché non me l'hanno tolto?
Prendo la mela, che risulta essere bacata sul lato
appoggiato al piattino. Lascia della condensa,
evidentemente giace su quel piatto da giorni e fa avanti
e indietro tra reparti, frigoriferi e mensa.
Il mattino seguente Paolo mi dice che molto
probabilmente mi faranno uscire in mattinata: non
avendo subito nulla di che e avendo passato la notte
senza problemi verrò dimesso, anche perché hanno
bisogno del letto.
I medici non passano neanche, mi arriva subito il foglio
di dimissioni, quindi cerco di alzarmi con l'aiuto di
Paolo, che mi dà una sistemata alla bell'e meglio e mi
accompagna alla porta.
Mi sento di troppo lì dentro, ho come la sensazione che,
non essendo in condizioni gravi, possa quasi dare
fastidio.
Forse è solo una sensazione o forse di più.
Mi avvicino a un ascensore e c'è molta gente, tutti mi
osservano come lo yeti sceso dall'Everest: sono ancora
sporco di sangue e brodaglia della sera prima, con una
benda in testa degna di un beduino del deserto e gli
occhi color blu dovuti alla botta presa. Ho bisogno di
una doccia, scendo con l'ascensore con tutte le persone
a bordo a debita distanza e, dopo qualche passo al piano
terra, mi trovo fuori nel piazzale. È una bellissima
giornata di sole e cielo azzurro.
Vedo il parcheggio dei taxi e percorro a zig zag il
tragitto che mi separa dalla macchina bianca più vicina.
Apro la portiera e salgo. Il tassista mi saluta e mi chiede
dove devo andare. Maledizione, mi sono scordato il
nome dell'hotel dove io e Greta avremmo dovuto
passare la nostra prima notte di nozze.
"Per cortesia, mi porti ad Amalfi!", ordino gentilmente
all'autista.
"Dovete andare in un posto in particolare?", chiede lui.
"Portami il più possibile vicino alla Cattedrale, magari
mi verrà in mente dove devo andare", rispondo.
Ho osservato il tassista negli occhi attraverso lo
specchietto retrovisore, mi ha fissato come fossi un
eroinomane in astinenza e senza molta convinzione ha
acceso l'auto ed è partito.

I vortici dell'anima Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora