Era andata male. Samuel aveva ancora impressi con un marchio di fuoco quei momenti trascorsi seduti uno di fronte all'altro, al tavolo, davanti alla colazione.
Era quasi l'ora di pranzo quando Noah si era svegliato e Samuel lo aveva pazientemente aspettato, un po' come un cucciolo di cane che aspetta il padrone, se doveva essere onesto con se stesso. E aveva deciso che sarebbe stato onesto con se stesso, quella mattina. Non fu una scelta sbagliata in tutto e per tutto, non è mai sbagliata l'onestà verso i propri sentimenti, Samuel lo sapeva già. Per questo si era preparato tutto un bel discorso sincero e ben strutturato per esprimere quello che provava nei confronti di Noah. Il problema fu un altro. Noah quella mattina non lo aveva guardato negli occhi neppure per un vago, erroneo istante. Noah si era svegliato, era andato in bagno, si era cambiato i vestiti, si era seduto a tavola, aveva ascoltato le sue parole e non aveva detto nulla. Almeno, in un primo momento. Poi, senza degnarlo di uno sguardo, come se fosse regredito allo status di insetto disgustoso, aveva proferito un semplice e atono "che schifo". Si era alzato dalla tavola, aveva lasciato parte della colazione nel piatto, aveva preso la giacca ed era uscito di casa. Così, senza aggiungere altro.
E Samuel era rimasto solo, seduto ancora a tavola, con un pezzetto di omelette infilzato dalla forchetta, ancora a mezz'aria. Samuel era rimasto solo, spogliato della sua dignità, privato della sua umanità, distrutto nel suo punto più fragile, atterrito e ferito e pieno di vergogna per se stesso. Si vergognava di se stesso, delle sue speranze, del suo essere, e le sue viscere erano contorte, doloranti, aggrovigliate in un grumo di sofferente amarezza. Non rispose nulla. Nemmeno quando Noah tornò a casa dopo aver comprato le sigarette. Tanto, non lo degnava neanche di uno sguardo, nonostante fosse ancora seduto a tavola, con gli occhi fissi davanti a se, come se ci fosse qualcosa di interessante da vedere nel muro della cucina.
Non c'era altro da fare. Era andata così.
Nelle settimane seguenti, tutto sembrò tornare indietro nel tempo, a quando Samuel si era appena trasferito in quell'appartamento. Noah lo evitava il più possibile, non rispondeva a nessuna delle possibili interazioni verbali che Samuel tentava di intavolare, se ne stava sempre chiuso in camera o al massimo sul divano, al cellulare, nella sua bolla e con l'aria da "non disturbarmi" evidente intorno a lui. E Samuel non si azzardava a disturbarlo, affatto. Avrebbe bramato un contatto, uno sguardo, una parola, se solo il suo cuore e la sua anima non fossero state schiacciate come l'insetto che ormai si sentiva di essere.Ogni tanto, diversamente da prima, venivano gli amici di Noah a far loro visita. Erano dei momenti davvero imbarazzanti. Chiunque avrebbe notato che i rapporti tra Samuel e Noah, se mai erano stati dei rapporti, ora non esistevano più. E così, Samuel aveva, suo malgrado e controvoglia e con una certa dose di risentimento, accettato che Desiree stesse appiccicata al suo coinquilino. Noah continuava a respingerla, ma chissà per quanto tempo sarebbe andata avanti quella storia. Samuel sapeva che, prima o poi, uno dei due avrebbe ceduto e non sembrava affatto la ragazza il tipo di persona che avrebbe voluto lasciare la presa. Grace era molto più discreta di come se la ricordava in discoteca. Sempre molto sulle sue, senza mai sbilanciarsi troppo, l'unica novità di cui si era accorto erano gli sguardi di lei che, di tanto in tanto, si posavano su Desiree. Samuel conosceva bene quel genere di sguardi. Ma non disse nulla. Non disse nulla in generale, se non direttamente interpellato.
Non se la sentiva di parlare. Non se la sentiva di giocare a carte. Non se la sentiva di bere birra, anche se Ziki insisteva sempre perché "non puoi isolarti così, amico, siamo un gruppo ormai".
Ma Samuel si sentiva un estraneo in mezzo a quelle persone. I capelli di Desiree le sfioravano le spalle, i jeans di Grace erano sempre larghi e pieni di tasche, Ziki era già ubriaco e, se non fosse stato per lui, ogni serata sarebbe stata un disastro di disagio e di silenzi. Ma Samuel si sentiva estraneo a se stesso. Non riconosceva più le sue mani, non riconosceva più la sua immagine, non riconosceva più se stesso. Era stato privato di ciò che di più prezioso costruiamo nel corso degli anni: la sua identità. E se aveva creduto di essere una persona forte, ora non ne era più sicuro. E se aveva creduto di essere una persona comprensiva, ora non ne era sicuro. E se aveva creduto di essere una persona dignitosa, ora non ne era sicuro.
"Fumi?"
Con lo sguardo perso sul suo mazzo di carte, Samuel avrebbe soltanto voluto mettersi a piangere, piangere come un bambino, piangere uno di quei pianti rumorosi e liberatori al contempo, lacrime che lavano via tutta la sporcizia che si è accumulata in fondo all'anima.
"Fumi?"
Samuel alzò gli occhi.
"Allora, fumi o no?"
Era Noah. Lo stava guardando, perciò era indiscutibile che quella domanda fosse rivolta a lui.
"Ogni tanto", rispose, titubante ad incontrare il suo sguardo.
"Tieni", Noah gli lanciò una sigaretta dall'altra parte del tavolo, con ben poca grazia. Il posacenere era al centro del tavolo. L'accendino era lì accanto.
Samuel prese l'accendino, si mise la sigaretta in bocca, la accese e aspirò. Dopo un primo colpo di tosse, perché non era un fumatore abituale, andò tutto liscio.
"Grazie", accennò, guardando Noah, ma lui aveva già abbassato gli occhi sulle sue carte, intenzionato nuovamente a privarlo di ogni attenzione.
E così fu, fino alla notte di Capodanno.
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i'll be okay like this
Short StoryNon c'è molto da dire su Samuel e Noah. Anche loro preferiscono il silenzio ad un milione di parole che sfuggono e si fraintendono. Il silenzio no. Con il silenzio puoi esprimere un intero mondo di significati, nella speranza di avere accanto qualcu...