Edward' s Point Of View
"C'è stato qualcuno!" Mormoro tra me e me.
Negli ultimi tre anni che io sappia sono stato l'unica persona a entrare dentro questo vecchio capannone e non vedo motivo per cui le cose dovrebbero cambiare.
Ma, e ciò è inconfutabile, ci sono una serie di impronte non troppo grandi, di scarpe da ginnastica. Recenti, di ieri o oggi direi. Le seguo. Per un po' girano per il capannone, poi sembrano seguire quelle che ho lasciato io ieri verso il mucchio di giornali.
Mi interrompo: sento un respiro. C'è qualcuno qui. Ora. Nel mio rifugio.
Seguo la scia nella polvere per una quindicina di metri e mi ritrovo faccia a faccia con una ragazzina.
Sui sedici anni, occhi verdi, ciglia lunghe, carnagione chiara, non molto alta. Una massa di capelli ricci, tinti di color blu notte con le punte viola.
Non sembra una senzatetto, ma neanche una sprovveduta che si è persa.
Non è poi così spaventata come sarebbe una qualunque ragazzina che si imbatte in uno sconosciuto in una tipografia abbandonata alle due e mezza di notte.
"Che cosa sei venuta a fare qui?" Domando con l'aria più minacciosa di cui sono capace.
"A scagliarmi contro le pareti della gabbia per provare a guardare fuori sperando che prima o poi potrò uscirne prima di diventare un canarino come tutti gli altri non vedi? E tu?" Risponde tutto d'un fiato. Poi prende coscienza di quello che ha detto e sembra sul punto di tapparsi la bocca con una mano.
Ha detto la verità, lo sento.
Percepisco subito di aver appena conosciuto una persona molto particolare. Non so perché, ma nelle sue parole ho sentito il ghiaccio e le fiamme, la delicata alba serena e una sconvolgente tempesta notturna. Non ha detto niente di che, ma ho percepito una mente contorta ma capace di leggere il mondo.
Per la prima volta in vita mia, mi sono imbattuto in qualcuno come me.
"Interessante. Io sono qui per ascoltare ciò che grida l'infinito" le rivelo a bassa voce.
"Wow. Quindi sei anche tu un pettirosso che si scaglia contro le pareti fino a impazzire?" Mi chiede.
"Sostanzialmente sì" Le sorrido.
"Ti faccio vedere una cosa."
La prendo per mano e attraverso a passo spedito il magazzino, poi apro la porta bianca in fondo e saliamo su per le scale. L'ultimo tratto è una scaletta di ferro arrugginita, che superiamo agilmente. Siamo sul tetto del palazzo.
Questo è il mio rifugio, in realtà sono più legato a questo posto che a casa mia e oramai mi sono abituato alla sensazione che si prova a stare qui, ma lei no.
Osservo la sua espressione passare dalla curiosità alla meraviglia. Si guarda intorno con gli occhi sgranati. Da qui si vede il mare, scuro e brillante, e dall'altra parte le colline ricoperte da fitti boschi. In lontananza si intravedono le luci di San Francisco.
"I confini..." la sento sussurrare. "Come conosci questo posto?"
"È il mio rifugio. Da anni, ormai. Vengo qui tutte le notti, a riflettere e a scrivere. Da qui si riesce a vedere il mare. Si vedono anche le colline. Da qui l'infinito parla e io posso ascoltarlo.
Credo di essere fissato con l'infinito. Da quando ho letto la poesia di Leopardi, mi sento relegato dietro la siepe. Ciò che scrivo, mi fa vedere fuori. C'è qualcosa dentro di me che scatta, che freme per riversare la mia anima in quei fogli, per trasformare me stesso in parole. È il mio istante di libertà, è la pazzia che garantisce la mia sanità mentale." Dico.
Lei ascolta interessata.
Non ho mai parlato di questa parte di me a nessuno. Tutti si limitano a considerarmi strano. I miei genitori e i miei compagni se ne fottono della mia psiche, quindi tanto meglio.
Per un attimo rimane in silenzio, e temo di essermi sbagliato. In tal caso, sono un cretino. Portare una ragazza qui, nel mio rifugio, parlarle di tutto ciò...Come un deficiente che ci prova con lei.
Poi inizia a parlare lei.
"Io sono prigioniera dentro questa stupida gabbietta, che a volte mi fa vedere fuori ma non mi fa uscire. Sono consapevole che fuori c'è qualcosa, sento che c'è un altro modo di vivere. E sono circondata da canarini, che vedono le sbarre della gabbia ma si rifiutano di guardare fuori. Procrastinano per tutta la vita il momento in cui usciranno, e muoiono senza averlo fatto. Intanto continuano a fare nidi, a vestirsi di piume e a cantare, come se fosse tutto lì, a creare stereotipi che gli calzano a pennello.
Io amo esplorare, è il mio modo di sentirmi libera, vivere quei posti che sfuggono al controllo dei canarini..." Conclude.
"Secondo me non è la città a essere una gabbia. È la società. La città è solo una piccola giungla di cemento. Una giungla che piano piano strappa l' anima del pettirosso e la rinchiude da qualche parte.
I posti morti della giungla, come questo, ti ricordano che tu non sei un canarino. Quassù, le sabbie mobili non ci arrivano" esclamo io.
Passiamo le ore successive a parlare di gabbie, teche, poesie, infiniti e canarini, poi verso le cinque lei mormora: "i nostri pensieri sono così simili...." e poi si addormenta beatamente, sdraiata sul tetto con la testa sulle mie gambe.
Decido di lasciarla dormire un po' e parlare con me stesso.
In queste quattro ore, io mi sono innamorato di lei. Siamo la stessa cosa. Io non so il suo nome, lei non sa il mio, ma lei mi conosce molto meglio di mia madre o dei miei amici e credo valga lo stesso per lei. Non mi sono mai affezionato a qualcuno così tanto in così poco tempo. E in questo momento non penso al fatto che potrei spezzarla e lei potrebbe spezzarmi, in questo momento vaffanculo il futuro e ogni logica coerente, voglio solo averla accanto. Passare ancora del tempo con lei. Insegnarle ad ascoltare l'infinito, vedere i posti che le piace esplorare.
La amo.

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