Cap.I

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Inès Wagner123890, Prigione di Butyrka, (MO)

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Inès Wagner
123890, Prigione di Butyrka, (MO)

                                                      6 settembre 2001
                                                       Dorotea Wagner
                               Berlino, North Kreuzberg, 122

Cara zia,
Se ricevi questa lettera, vuol dire che vivo ancora.
Non posso scrivere più di un foglio, quindi cercherò di essere molto breve. Durante la spedizione ai confini russi dalla Lettonia, dei soldati delle forze terrestri ci hanno ferocemente attaccato. Hanno aperto il fuoco, e ovviamente molti dei nostri sono morti. Probabilmente non hanno nemmeno avuto il tempo di capire cosa stesse succedendo. O almeno lo spero. Io e altri pochi rimasti siamo stati catturati, messi su in un autocarro da merce, e portati in una remota prigione a Mosca. Sono qui da giorni e non ho idea del perché ci tengano ancora vivi. Fa piuttosto freddo qui, ma sopravvivrò. Ti scrivo questa lettera per pregarti di prenderti cura di Hannah. Non dirle come sono andate le cose, dille che siamo ancora in viaggio, che la neve ha creato dei problemi e che probabilmente tra pochi mesi sarò di ritorno.
E dille anche che sua madre ritornerà con i soldi necessari per le cure.
Zia Dora, sei l'unica persona che mi resta. Non abbandonare mia figlia.
Ti voglio bene.

Fu così che terminai la mia lettera.
L'ultima lettera che inviai a casa. Rischiavo molto a dir la verità, avevo trovato una donna, Elenha, ricordo, che mi disse che per qualche spicciolo poteva far recapitare questa lettera.
Elenha si trovava in quel posto da parecchi anni, mi raccontò durante il periodo della nostra prigionia insieme, che le fu data una condanna di almeno 8 secoli. Pare che fosse una delle donne più ricercate nei confini russi, e alla fine finì per essere catturata e condannata. Ovviamente si fece degli amici.
A quanto pare era potente all'interno di quelle mura. Una cella sfoglia e fredda, era quella che ci ospitava. Mi sedetti a terra in un angolo buio per un lungo tratto di tempo, pensando a cosa avrei potuto scrivere in quel pezzo di carta rovinato dal carbone, macchiato e leggermente bruciato. Era quello che avevo, e dovevo farmelo andar bene, dopotutto l'importante era avvertire la mia famiglia che ero ancora viva. Ma non per molto, pensai.

Quando fummo attaccati nella sottile linea che separa la Russia con la Lettonia, Ingrid, la mia collega, vedendo i nostri compagni cadere senza nemmeno accorgersi di ciò che stava accadendo, mi disse di provare a scappare e abbandonare l'operazione e fuggire approfittando della neve, in qualche disperato modo. Le nostre divise avevano lo stesso colore, proprio per mimetizzarsi in caso di grande pericolo. Ma a quanto pare non servì. Pensai a lungo che creare delle simili uniformi fosse una stupida strategia e quel giorno ne ebbi la conferma. Stupido governo.
I soldati delle forze terrestri ahimè, ci trovarono prima che riuscissimo anche solo ad allontanarci dall'operazione, ci afferrarono e ci diedero un colpo secco sul cranio per farci perdere completamente i sensi.
Pensavo di essere morta.

Mi risvegliai con un acuto mal di testa all'interno di una cella, gelida e buia, in un primo momento pensai di essere finita all'inferno. Forse l'inferno sarebbe stato meno freddo e meno buio, pensai.
Dopo qualche istante sentii il rumore di una chiave che veniva inserita all'interno di una serratura, probabilmente arrugginita, e così mi sforzai di tenere la testa alta e gli occhi aperti per controllare chi mi si avvicinasse.
Vidi una donna, una donna dai capelli neri, la pelle chiara, e gli occhi scavati. Nonostante il buio incontrastabile mi accorsi subito che fosse in uniforme, ma non volli chiederle niente.
Sussurrò una frase in russo che ovviamente io non capii. Poi venni portata da due soldati in infermeria, dove fui medicata. Non capii cosa disse quel medico, capii solo che a quanto pare avevo perso molto sangue e sembrò un miracolo che non mi fosse venuta un'emorragia celebrale.

Mi mise in cura, ogni giorno mi veniva servito qualcosa che aiutava i miei tessuti muscolari a guarire, una volta a settimana mi veniva servito della carne di vitello, poi dello stufato di verdure, del riso, della frutta. E infine dei farmaci, vitamine, e quando il colpo alla testa di poche settimane prima ricominciava a farsi sentire, antidolorifici.
Passarono pochi giorni e mi permisero di andare nella mensa del carcere. Cercai a lungo, ma dei miei compagni, nessuna traccia.
"Che siano ancora rinchiusi in qualche cella?" pensai. I miei giorni passarono in questo modo, giorno dopo giorno , io e le mie colleghe detenute ci svegliavamo all'alba per fare la nostra passeggiata nel grande cortile, la nostra camminata ordinaria. Subito dopo si passava agli allenamenti, alle infinite sessioni di flessioni, salti con la corda, corse, pesi. Poco dopo ci servivamo in mensa per pranzo, subito dopo si passava all'area ricreativa fino all'ora di cena, e passata anche quella, tornavamo nelle nostre celle buie, spoglie e fredde.

Pensavo di essere caduta in depressione. Il mio pensiero era rivolto solo ad Hannah, speravo che mia zia avesse ricevuto quella cazzo di lettera, e che mia figlia mi credesse al sicuro. Nutrivo molta rabbia, ma anche molta tristezza, frustrazione, paura, perché piuttosto che vivere in quel modo avrei preferito morire.
Un giorno presa dall'infinita disperazione, provai a mordermi la lingua a sangue per provare a suicidarmi, dato che i primi giorni di prigionia non lasciavano nemmeno che dormissi con i polsi liberi. Ma sfortunatamente per me la guardia se ne accorse appena in tempo, e mi soccorsero. Dannazione, pensai.
Pare che non volessero lasciarmi morire. Eppure ero solo una prigioniera di guerra, cosa contavo veramente? Cosa rappresentavo veramente in quel carcere remoto, freddo, che sembrava non avere nulla a che fare con il mondo all'esterno, che sembrava essere in un pianeta sconosciuto, completamente lontano da quello che era il cosmo terrestre fino a quel giorno in cui mi catturarono e imprigionarono. Pareva essere un angolo d'inferno, una punizione divina per aver lasciato mia figlia in un letto freddo, abbandonata a sè, mentre la malattia prendeva il sopravvento sul suo debole e minuscolo corpicino.
Persi tutto. A cominciare dalla mia stessa vita.

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