Seven for the pads aisle

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• Axel •

L'oceano.

Qualcuno, non sapevo chi o quando, aveva detto che i miei occhi erano l'oceano. Era il complimento più bello che avessi mai ricevuto e non ricordavo nemmeno a chi fosse dovuto.

🕷️

Lo sguardo ruvido che il mio riflesso mi stava restituendo quella mattina, era solo il primo di una lunga serie. Mi guardavo così da ormai dieci giorni, dal primo giorno che avevo passato lì a Seattle: i miei occhi mi chiedevano, pregavano, di fare qualcosa.

Non mi ero trasferito a quasi due mila chilometri di distanza solamente per cambiare aria; io cercavo delle risposte, su di me, su quello che mi ribolliva dentro e a cui non sapevo dare un nome, ed era abbastanza chiaro che non fossi capace di trovarle da solo. Mi erano serviti ventitré anni per ammettere che non ero come tutti gli altri, come mia madre e mio padre speravano che fossi, ed era stata la più amara delle consapevolezza.

Devo parlare con  Alice.

Ma dove trovare il coraggio?

Mi lavai il viso, poi i denti. Il ciuffo davanti era diventato troppo lungo, mi ricadeva sulla fronte, accarezzava le mie ciglia e mi solleticava il ponte del naso. Cercai di portare indietro le ciocche più lunghe, ma queste riprendevano sulla pelle le forme più strane; mi davano l'aria di uno coglione appena sceso dal letto. Non del tutto falso; era quasi mezzo giorno e mi ero svegliato solo venti minuti prima, ubriaco di un sonno tormentato.

Avevo fatto uno strano incubo, i dettagli sfuggivano alla memoria come frammenti di nuvole, ma le sensazioni erano rimaste incagliate nel mio cuore. La paura mi vorticava ancora dentro, da qualche parte, e mi faceva tremare lo stomaco abbastanza da togliermi la fame.

Non feci nemmeno colazione; entrai in cucina solo per guardare le disposizioni di quella settimana.

I piatti!

Odiavo fare i piatti e l'unica a saperlo in quella casa era Alice, la stessa a cui era stato assegnato il compito più facile: fare la spesa.

«Sei una stronza.»

«Grazie... ma a che lo devo?»

Alice mangiucchiava una manciata di mango disidratato, a gambe incrociate sopra il divano. Non alzò gli occhi per guardarmi, stava cercando il lato migliore per addentare il suo mango. Lo faceva sempre anche quando eravamo bambini. Io finivo di pranzare in cinque minuti e quando mi giravo verso di lei, la trovavo ancora intenta a scegliere l'angolo della pizza da cui iniziare.

«Hai fatto tu il piano.» Non era una domanda la mia, ma una constatazione.

«Non nego e non ammetto nulla.»

Finì di mangiare e poi si spolverò le mani sul retro degli jeans slavati.

«Io vado, il dovere mi chiama.»

«Vengo anch'io,» dichiarai.

La raggiunsi sulla porta e Alice si girò a guardarmi, gli occhi blu pungenti quanto spilli. 

«No!»

«Si.»

Mia sorella sospirò, poi scosse la testa prima di afferrare le chiavi di casa dal posacenere  sulla scarpiera. 

Non parlammo molto nel tragitto verso il supermercato, Alice mormorò qualche parolaccia sotto voce quando rischiai di essere investito da un ciclista, dopodiché si impegnò con tutte le sue forze a ignorarmi.

Okay, me lo merito.

Ero scomparso dalla sua vita per anni. Lei si era allontana da me, sì, ma io nemmeno avevo provato ad avvicinarmi e a capirla. In quei momenti mi sentivo disgustoso; non l'avrei ammesso mai ad alta voce, ma sapevo che le convinzioni ingiuste dei miei genitori mi erano entrare dentro, poco a poco, come il veleno di un serpente silenzioso e infido. Ci avevo messo quasi un anno anche solo per riuscire a dire quella parola, aroace, senza farmi venire i brividi.

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