L'invito - USA 1954

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George parcheggia la Cadillac nel vialetto della piccola villetta di Vox. Le finestre sono tutte spente, immerse nell'oscurità. Per un istante mi sembra irreale essere finalmente tornata a casa. Mi sento come Dorothy che ritorna in Kansas dopo essere stata a Oz; e guardando George, mi chiedo se ho fatto il viaggio di ritorno con l'Uomo di Latta, scoprendo che forse ha davvero un cuore.

George recupera la sua giacca dal sedile posteriore e la indossa, anche se è fradicia e gli si appiccica addosso. I suoi capelli gocciolano e i vestiti pesano per la pioggia. Io non sono da meno, ma lui sembra del tutto indifferente al freddo che ci avvolge. Lo osservo, perplessa; pensavo che sarebbe rimasto in auto. Ma, ovviamente, la Cadillac appartiene a Vox, e gli servirà domani mattina.

«Niffty, pensavo... potremmo non dire niente a Vox del fatto che ti sei persa e sono venuto a prenderti,» mi dice, fissandomi negli occhi.

Le sue parole mi spiazzano. Perché vuole nasconderlo a Vox? Lo fisso, in cerca di spiegazioni.

George rimane calmo, il tono della sua voce è quasi rassicurante. «Vox non ama gli imprevisti e non avere le cose sotto controllo. Dopo la reazione di ieri sera, eviterei di dirglielo. Non trovo utile creare altre tensioni. Ma lascio decidere a te.»

Accenno un sorriso incerto. Sta cercando di proteggermi? L'idea mi sembra così poco da me, ma, al tempo stesso, mi sembra... giusta. Dopotutto, sarebbe un piccolo segreto, e mi risparmierebbe altre discussioni inutili. Vox forse non capirebbe il mio disagio per Linda o quello che è successo a Chinatown.

Annuisco leggermente. «Grazie, George.»

«OK, allora... buonanotte, sei più tranquilla ora?» mi chiede, la sua voce più morbida del solito.

Non sono sicura della risposta. La rabbia si è placata un po' dopo aver lanciato quel sasso contro la vetrina, ma c'è ancora una tensione che mi stringe lo stomaco. Annuisco, cercando di rassicurarlo. «Buonanotte, George.»

Lui si infila le mani nelle tasche e si volta, avviandosi verso la strada. Cammina sotto la pioggia, fischiettando "Singing in the Rain". Il rumore della pioggia che schizza sotto i suoi passi e l'intera scena mi incolla alla sua figura; mi aspetto che da un momento all'altro, possa mettersi a cantare e ballare come Gene Kelly. Apro la porta e mi lascio travolgere dal buio e dal silenzio dell'ingresso. Dopo tutto quello che è successo, la casa sembra vuota, priva di calore e vita. Accendo la luce, e il mio ambiente familiare sembra improvvisamente estraneo.

Rimango sull'uscio, ferma, con le mani che tremano. Non voglio restare da sola. Non voglio sentirmi più sola. Mi sento come un pulcino uscito dall'uovo che guarda un guscio che prima era tutto il suo mondo e ora sembra freddo e vuoto. Senza pensarci due volte, corro fuori. Mi blocco appena prima di oltrepassare il nostro recinto bianco del giardino, come se una parte di me non volesse staccarsi dalla sicurezza del mio ambiente domestico. Sotto la pioggia battente, vedo George a metri di distanza.

«Gez!» La mia voce è un sussurro, quasi soffocato dal frastuono della pioggia. Ho un tremore; la paura che lui non mi senta cresce dentro di me. Non posso rincorrerlo né gridare in piena notte.

Voltati, ti prego.

Come se avesse percepito il mio pensiero, George si volta. Un lampione lo illumina debolmente, riflettendo la pioggia che gli scivola addosso. Mi guarda con un'espressione perplessa, il viso ombreggiato dalla luce. «Dimmi...» chiede, tornando sui suoi passi e accorciando le distanze tra noi. Si appoggia alla staccionata, inclinando la testa di lato, in attesa.

«È buio... piove...» balbetto, cercando di mettere ordine nei miei pensieri.

George sorride, quel sorriso che sembra prendere in giro le mie preoccupazioni. «Oh! Hai ragione, non me n'ero accorto!» risponde, con il suo solito tono ironico. Ma nei suoi occhi c'è una luce gentile, quasi protettiva.

I Used to Love Him (But I Had to Kill Him)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora