In tre - USA 1954

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Io e George siamo comodamente seduti sul divano, avvolti da un silenzio rilassato che ci unisce senza bisogno di parole. La pelle del divano sotto di me è fresca e liscia, mentre affondo nella morbidezza dei cuscini, e il calore delle lanterne rosse che oscillano lentamente nel salotto ci avvolge in una luce soffusa, intima, che si riflette sulle pareti con una vibrazione calda e rassicurante. Ogni tanto, un raggio di luce cattura lo sguardo di George e si riflette nei suoi occhi, e mi sorprendo a trovarlo così tranquillo, quasi in armonia con questo momento di quiete. Tra di noi c'è solo il respiro lento e il fruscio lieve dei nostri movimenti.

Poi la voce di Vox si alza nel corridoio. Sta cercando di liquidare Leland, con quel tono di pazienza esasperata che usa solo per lui, e non posso fare a meno di sentirmi sollevata. George alza un sopracciglio e, senza perdere un attimo, assume una voce acuta, stridula, che imita con spietata precisione l'adulazione di Leland.

«Oh, ti prego, Vox, non attaccare! Lasciati umettare ancora un po' il culo, sai quanto amo leccarlo, calpestami Vox!» Imita Leland con una voce così grottescamente teatrale che, prima ancora di rendermene conto, mi ritrovo con le mani a coprire il viso per soffocare le risate.

«Viiinceent!» continua George, senza freni, la voce stridula e insopportabile, il tono carico di sarcasmo. «Ancora cinque minuti! Voglio immaginarti mentre firmi tutte le mie carte e poi firmi anche me... graffiami con la tua penna stilografica! Oh! Sì!»

È così sfacciato! Non riesco ad evitare un lieve imbarazzo e quel calore che sale alle guance. Non posso fare a meno di ridere, cercando inutilmente di mascherare il suono. Mi rendo conto che George non si sta preoccupando nemmeno di abbassare la voce, e anzi, forse spera proprio che Vox lo senta.

Pochi istanti dopo, vedo la sagoma di Vox che appare dalla porta del corridoio. Tiene ancora in mano il ricevitore, tirando il filo a spirale del telefono fino al limite. I suoi occhi sfavillano di un'esasperazione divertita, il braccio teso oltre la porta, il dito medio ben in vista, rivolto verso George. George gli lancia uno sguardo soddisfatto, come se quella reazione fosse proprio ciò che sperava.

«Sì, è Gez. Stava dicendo che ti saluta... va bene, a domani allora!» Vox cerca di concludere la chiamata con la sua abituale pacatezza, ma vedo la linea della sua bocca che si tende leggermente, quasi trattenendo una risata, mentre i suoi occhi si posano su George in modo complice. Abbassa la cornetta con un sorriso ironico, sospirando, e si gira verso di noi con un'espressione di finto rimprovero.

«Sei proprio uno stronzo!» esclama, anche se il sorriso ormai gli ha già tradito la complicità che condivide con George.

La stanza è ancora avvolta da un'atmosfera leggera e intima, le nostre risate sembrano restare sospese nell'aria, come se il calore della serata avesse creato un piccolo rifugio per noi tre. Le ombre delle lanterne continuano a danzare sui muri, dando alla stanza un'atmosfera soffusa, quasi onirica. Sento che questa bolla di complicità ci avvicina, stringendoci l'uno all'altra, quasi a rendere il mondo fuori irrilevante.

«Io?» ribatte George, con una voce velatamente risentita. «Ti avevo chiesto una sera solo per noi, tranquilli... e tu ti metti a perdere un'ora al telefono con quel rompicoglioni. Cosa c'era di così urgente?»

Vox si avvicina, si siede accanto a me sul divano, costringendomi a scivolare un po' verso George, che non si sposta ma, anzi, sembra accogliermi vicino con un piccolo sorriso appena accennato.

Vox sospira, ammorbidendo lo sguardo come se volesse farsi perdonare. «Avete ragione, scusatemi, davvero. Domani devo firmare delle carte... ci sono complicazioni, ma sto cercando di diventare azionista del network. Le clausole sono un labirinto, e volevo essere certo che tutto fosse in ordine. Non potevo rimandare.»

I Used to Love Him (But I Had to Kill Him)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora