𝟎𝟏・𝐈𝐧𝐯𝐢𝐭𝐨 𝐚𝐥𝐥'𝐀𝐥𝐯𝐞𝐚𝐫𝐞

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Sei mesi prima


Nell'autunno dell'anno in cui iniziai a studiare giurisprudenza alla Sapienza, ricordo che mi masturbavo almeno tre o quattro volte al giorno. La trovavo una cosa patetica e imbarazzante, ma non potevo farne a meno, nonostante stesse diventando rapidamente un problema per me.

La chiamavano con parole grosse che riempivano la bocca e pesavano sul mio petto. Dipendenza sessuale, diceva la mia terapeuta, e i miei genitori ripetevano, e aggiungevano che dovevo trovare un modo sano per gestire il mio problema, visto che avevo dovuto sospendere le medicine che mi erano state prescritte. Purtroppo, mi provocavano una tremenda sonnolenza diurna che ostacolava i miei studi, e il rendimento scolastico, a casa mia, era sempre stato la priorità assoluta.

Ma niente aveva funzionato, non il pattinaggio, non il pugilato, non il corso di pittura. Solo il sesso poteva concedermi una via d'uscita dal mio personale inferno, ma secondo la dottoressa era solo un palliativo, un modo come un altro per alimentare la mia dipendenza, e in pratica non mi aiutava per davvero.

Ma non m'interessava, e mentre il tormentone di quell'estate cantava sesso e samba, io indulgevo in sesso e masturbazione, un circolo vizioso in cui ogni volta che mi soddisfacevo in risposta a uno sbalzo d'umore o un attacco d'ansia, mi sentivo assalire da quel senso di colpa insopportabile che riuscivo a mettere a tacere solo con altro sesso, o altra masturbazione.

Per questa ragione i miei genitori erano stati riluttanti all'idea di lasciarmi trasferire a Roma, a casa di mio fratello, in un momento tanto delicato del mio sviluppo. Lui aveva tre anni in più di me, zero voglia di starmi dietro, e viveva da solo nell'appartamento che era appartenuto a mia nonna, pace all'anima sua, un trilocale al quarto piano di un dozzinale condominio in zona Centocelle, un'area residenziale ambita per gli affitti bassi e la posizione vantaggiosa.

In quel luogo, aveva avuto inizio la mia routine. Ogni mattina, il tram della linea 19 percorreva via Prenestina, tagliando la città a metà. Costeggiava il cimitero monumentale, di cui ammiravo le rosse mura di mattoni sormontate dai verdi cipressi, e infine imboccava Viale Regina Elena.

La prima fermata era la mia. La Sapienza.

Sollevai il naso contemplando le colossali colonne dell'ingresso monumentale, che come la prima volta m'incutevano un timore reverenziale. Oltre quella solenne entrata, risalente agli anni trenta, nel pieno del ventennio fascista, si snodava la città universitaria, con le facoltà di lettere e filosofia, matematica, economia, e naturalmente quella di giurisprudenza, la più antica e prestigiosa. In poche parole un sogno... per i miei genitori.

Se fosse stato per me, avrei studiato per fare il tatuatore, ma quando i miei avevano proposto tutti allegri «Allora puoi fare architettura, come tuo fratello», mi ero opposto categoricamente.

«Troppa matematica. Piuttosto giurisprudenza.» avevo risposto, loro mi avevano preso in parola, e io, come sempre, mi ero rassegnato a scendere a compromessi. Dopotutto, con loro, da sempre era tutto un compromesso.

Puoi tatuarti dove vuoi, basta che eviti le mani e la faccia.

Puoi fumare canne, basta che non assumi droghe pesanti.

Puoi frequentare un corso per tatuatori, basta che ti laurei.

Insomma, per loro era importante che prendessi una laurea prima di pensare al resto, dicevano che lo sarebbe stato anche per il mio futuro, e io non mi ero opposto, anzi avevo cercato il lato positivo. Dopotutto, l'università era l'occasione perfetta per conoscere persone nuove... e anche per portarle a letto, se l'interesse era reciproco, naturalmente.

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